Il napoletano alla prova del reality show
Troverete qui sotto la traduzione e l’aggiornamento in italiano del post Le napolitain à l’épreuve de la téléréalité.
Il napoletano alla prova del reality show
Una volta ancora, il miglior cinema italiano, quello fedele all’eredità del neo-realismo, parla in “dialetto” (virgolette da non trascurare), in questo caso il napoletano. Sono in fatti andato a vedere e a sentire Reality, il film di Matteo Garrone, il regista di Gomorra, di cui si èra già parlato qui.
Grande fratello e il“dialetto”
Reality è una commedia amara, una favola cupa sull’Italia (post-) berlusconiana in cui il modello dominante – un modello globale, sociale, economico, etico e culturale –, sarebbe quello proposto e imposto dai reality show. È la storia di Luciano, un modesto pescivendolo del centro storico. Vive in un appartamento misero e sovraffollato nel cortile di un palazzo tanto signorile quanto scadente, circondato da una famiglia e da un vicinato più veri del vero, vale a dire nella migliore tradizione del teatro napoletano (dei fratelli De Filippo, tra tanti altri). Con l’aiuto della moglie e del suo impiegato, Luciano cerca di arrotondarsi lo stipendio con una truffa alla vendita di robot da cucina, così sofistica che non sono sicuro di averne nemmeno ben capito il segreto. Senza pensarci, per compiacere la figlia più piccola, accetta di partecipare ad un provino in un supermercato per la trasmissione Grande fratello (il reality chiamato Secret story in Francia, Big brother un pò dovunque; ne esiste una moltitudine di versioni intorno al mondo, tutte basate sullo stesso principio della clausura e dell’esibizione permanente davanti alle telecamere). La sua vita ne rimane completamente sconvolta, vampirizzata ormai dal desiderio ossessivo di vedersi assunto nello show, sotto gli occhi prima complici, poi inorriditi della famiglia. La commedia, a poco a poco, si trasforma in un incubo.
Garrone ha particolarmente curato la lingua, facendo ricorso ad attori di varie compagnie “dialettali” campane; tutte le scene in famiglia e nel quartiere vengono recitate nel’idioma partenopeo, vale a dire in “dialetto” più o meno “stretto”. Quando Luciano poi parla italiano, ad esempio nei provini, conserva un accento molto forte e tratti idiomatici tipicamente napoletani.
D’altronde, la ragione per cui non riesce a farsi coinvolgere nella trasmissione, nonostante il suo carisma, potrebbe essere proprio questo suo accento troppo marcato e questi suoi modi di dire, che corrispondono male al modello linguistico associato allo show: un italiano standard degradato, strapieno di parole e espressioni prese in prestito all’inglese. Sono un pò sorpreso che nessun critico italiano abbia considerato questo aspetto: cioè che il mondo a cui Luciano appartiene, gli ambienti popolari napoletani che guardano Grande fratello in TV, non hanno (ancora) incorporato il modello fino al punto di parlarne la lingua, anche se tali influenze sull’italiano colloquiale e sullo stesso “dialetto” sono innegabili.
È ovviamente questa presenza della lingua napoletana che mi interessa qui e non le qualità o gli eventuali difetti del film, gran premio della giuria al Festival di Cannes, trattato molto male dalla stampa francese e invece piuttosto elogiato in Italia. Ci sarebbe qui molto da riflettere, perché il confronto dei critici francesi ai critici italiani è di gran lungo sfavorevole ai primi; questi, il più spesso, rimangono completamente estranei ai codici espressivi sfruttati da Garrone, confondono l'oggetto della sua satira con la sua estetica e trascurano del tutto la portata sociale, anzi filosofica del film (Garrone riesce a farci credere per un momento che il vecchio modello complessivo de la religione cattolica sarà in grado di salvare Luciano dall’affogamento nel delirio del reality show), per non parlare della dimensione linguistica che, quando non rimane inosservata, si limita a delle sciocchezze (“dialetto napoletano alquanto colorato...”, “ritmo irresistibile del dialetto...”, “anche il gustoso dialetto napoletano diventa caricaturale, grottesco...”, tale blogger si lamenta perché non può nemmeno “rivedere” il suo italiano, il film essendo in “dialetto”, ecc.).
Per essere onesto, devo ammettere che gli stessi luoghi comuni si ritrovano anche nella stampa italiana: un critico parla della “straordinaria musicalità del dialetto napoletano” e un altro della sua “dolce melodia”. C’è chi anche, tra gli internauti italiani, si lamenta perché il film è tutto “in dialetto napoletano”, anche se sottotitolato. Tuttavia, la maggior parte, come Arianna Pagliara, insiste sull’ “uso efficace ed espressivo del dialetto” e sul suo ruolo essenziale nei momenti di commedia, ma anche quando il dramma va crescendo.
Si cercherebbe però invano una qualsiasi analisi un pò approfondita di questa scelta del “dialetto”. Eppure, il napoletano traccia la più grande differenza, tradisce il divorzio più radicale tra le condizioni sociali dei protagonisti, il loro universo culturale immediato (quello delle conversazioni al caffè, delle discussioni in famiglia) e il mondo incantato dei prodotti del reality show che, di fatto, sono forse diventati ormai tra i loro più importanti referenti culturali, e di cui parlano, caso mai, a tavola e al banco, invariabilmente nel loro proprio idioma.
Genocidio e resistenza
Paolo Mereghetti, nel Corriere della Sera, dichiara: “il genocidio di un popolo e di una cultura, di cui parlava Pasolini, si è ormai compiuto e Garrone ce lo racconta con un film intenso e dolente”. Il giornalista rimanda ad un famoso intervento del 1974 in cui Paolini si rifa ad un passo del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels: “la distruzione e sostituzione di valori nella società italiana di oggi porti, anche senza carneficine e fucilazioni di massa, alla soppressione di larghe zone della società stessa”. Questo genocidio avviene clandestinamente, attraverso “una sorta di persuasione occulta”; “I giovani hanno perduto il loro antico modello di vita […] e adesso cercano di imitare il modello messo lì dalla classe dominante di nascosto”.
Tra le altre cose, questo genocidio colpisce il linguaggio e porta all’afasia, alla “perdita di capacità linguistica. Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era una lingua vivente, rinsanguata da continue invenzioni quasi poetiche; c’era una meravigliosa vitalità linguistica. Il modello messo lì dalla classe dominante li ha ora bloccati linguisticamente”.
Sono passati pressappoco quarant’anni. Alla vista del film di Garrone, si può effettivamente aver voglia di dire che, ormai, tutto è consumato; la sostituzione dei valori si è davvero verificata. L’unica differenza è che il modello della classe dominante non è più quello della borghesia dei signorini educati per bene; è diventato quello dell’ignobile volgarità berlusconiana diffusa dovunque: l’estetica kitsch di Garrone lo dimostra abbastanza. Si incarna soprattutto nel carattere di Enzo, protagonista di tutti i matrimoni e festeggiamenti pubblici, perché ex vincitore del Grande Fratello, ammirato e desiderato da tutti.
Eppure bisogna costatare, almeno a Napoli, che il “dialetto” ha resistito, mentre tutti, o quasi, continuano a considerarlo uno stigma sociale e non certamente un vettore di cultura. Tuttavia, la sua esistenza, la sua sola presenza basta a dimostrare che il modello televisivo non riesce, almeno in parte, a formattare del tutto gli uomini, anche se gli può rendere pazzi. È molto probabile che la maggior parte dei locutori, ahimè, sono pronti a riconoscere la superiorità infinita del modello offerto dalla lingua standardizzata dei presentatori e eroi del Grande Fratello, sinonima di successo e di modernità (anche su questo piano la trasmissione realizza al suo modo l’incubo di Orwel) e giudicata molto più sexy, più desiderabile del dialetto dei poveri disgraziati.
Tuttavia, Garrone mostra anche che tutti i giudizi sullo show non sono unanimi; fin dall’inizio alcuni membri della famiglia hanno il coraggio, di fronte a Luciano e alla sua nuova religione, di prendersi gioco della trasmissione e di opporsi alle pazzesche aspirazioni del pescivendolo. In ogni caso, tutti vedono, eccetto Luciano perché per l’appunto è diventato pazzo, che il mondo del Grande Fratello è un mondo televisivo, un mondo dei sogni (di successo, di riconoscimento, di lussuria, ecc.), ma che la sua confusione con una realtà che tutti vorrebbero fuggire è di per se distruttiva. Questa resistenza della realtà viene rappresentata, anzi incarnata dal “dialetto”; è il segno della differenza ontologica tra essere e apparenza, tra la vita e le immagini. Anche se la separazione, la scissione viene distrutta da Enzo – la trappola identificatoria di Luciano – che è la figura in carne e osso dell’eroe della banalità, un uomo qualunque trasfigurato, esaltato, deificato dalla televisione, ma egli ha addirittura quasi perso ogni mezzo linguistico; il suo discorso si limita alla ripetizione di alcuni slogan stupidi, preferibilmente in inglese: “Neverrrr give up !” pronunciato ovviamente con une fortissimo accento italico.
Il “dialetto” è in ogni caso legato, inchiodato, condannato alle classi subalterne; come se portasse irrimediabilmente su di se il marchio della maledizione sociale. Da questo punto di vista, non è certo un caso se l’attore che interpreta Luciano, Aniello Arena, davvero bravissimo, sia detenuto nella fortezza di Volterra, ergastolo per la sua partecipazione ad un crimine mafioso successo a Napoli quasi 20 anni fa (strage di piazza Crocelle a Barra). È membro della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, composta dai carcerati (Garrone già aveva tentato di farlo recitare in Gomorra).
“Dialetti” e prigione
Chi lo desidera troverà on line vari articoli dedicati alla storia personale di questo attore fuori del comune (ad esempio sul sito di Cinema Fanpage). Attraverso di lui, si insiste ancora una volta sul legame tra il “dialetto” e il mondo dei bassifondi e del crimine, che solo l'arte può salvare. Questa redenzione attraverso il teatro e il cinema, è quella dello stesso dialetto, in qualche modo sublimato, salvato dalla sua dannazione sociale, riscattato tramite la sua pratica artistica.
Ed è esattamente quello che succede con l’ultimo opus dei fratelli Taviani, Cesare deve morire, interamente recitato da attori detenuti nella sezione di massima sicurezza del carcere romano di Rebibbia. Provo difficoltà ad esprimere quanto questo film, di grandissima intensità e bellezza (direi quasi pasoliniano), mi ha commosso. Si tratta di una interpretazione, dietro le mura della prigione, di Giulio Cesare di Shakespeare, che incontra, si mischia e si confonde con la vita quotidiana dei detenuti attori, tutti quanti condannati a pene lunghissime. Anche in questa prigione, in effetti, esiste una compagnia teatrale, diretta da Fabio Cavalli. Il regista adatta opere classiche come Amleto o La Tempesta di Shakespeare o ancora l’Inferno di Dante, chiedendo agli attori di tradurne i passi e le battute nei loro propri dialetti (romano, napoletano pugliese, siciliano, ligure...). Spiega Cavalli: “Non vorrei sembrare leghista [appena uno parla bene dei “dialetti” in Italia, sente purtroppo la necessità di fare questa precisazione], ma i dialetti rappresentano un patrimonio inestimabile della nostra cultura nazionale. Inoltre i miei attori, che sono perfettamente in grado di recitare in italiano, nel loro dialetto riescono ad traslare con una forza ancora maggiore i linguaggi alti che animano un grande dramma come il Giulio Cesare. Una catarsi che ho potuto sperimentare anche con altri classici…”.
Gli spettatori vengono ad assistere agli spettacoli nel carcere stesso. Alcuni di questi hanno avuto un grande successo. I fratelli Taviani hanno assistito ad una rappresentazione, e non ne sono usciti illesi: “[gli attori] avevano scelto alcuni canti dell'Inferno e ora nell'inferno del loro carcere rivivevano il dolore e il tormento di Paolo e Francesca, del conte Ugolino, di Ulisse... Li raccontavano ciascuno nel proprio dialetto, confrontando a tratti la storia poetica che evocavano con la storia della propria vita. […] Sentimmo il bisogno di scoprire con un film come può nascere da quelle celle, da quegli esclusi, lontani quasi sempre dalla cultura, la bellezza delle loro rappresentazioni”.
Questa pratica del teatro classico in carcere è agli antipodi del fantasma alimentato dallo spettatore per la trasmissione Grande fratello. Il “dialetto” non è più qui ciò che separa il mondo reale dal mondo dei fantasmi, baluardo e ostacolo che, quando casca, conduce all’anientamento nello spettacolo; diventa piuttosto quello che permette di replicare su un altro piano, tramite il testo classico, la sua propria tragedia umana; la sua funzione è davvero catartica, così come lo dice Cavalli.
Il compito culturale assegnato al dialetto, in questa operazione, è quello di restituire ai classici la loro forza originaria, affievolita nella lingua nobile della cultura alta; a sua volta, il dialetto, con la traduzione e l’appropriazione dei grandi testi, diventa una lingua letteraria, si nobilita e in qualche modo supera se stesso... Questo scambio è tipico della creazione dialettale italiana odierna, di sorprendente vitalità. Sfrutta e sovverte la diglossia, senza però mettere in causa le funzioni e le gerarchie che dividono e oppongono la lingua e i “dialetti”. Per questa ragione, le questioni cruciali della trasmissione scolastica e della pratica culturale normalizzata dei “dialetti” in quanto “lingue” (e ovviamente lingue sono da un punto di vista prettamente linguistico) non possono nemmeno essere formulate.
Jean-Pierre Cavaillé