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Mescladis e còps de gula
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  • blog dédié aux cultures et langues minorées en général et à l'occitan en particulier. On y adopte une approche à la fois militante et réflexive et, dans tous les cas, résolument critique. Langues d'usage : français, occitan et italien.
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4 mai 2011

Cultura orale e musicale del Salento: canti, proverbi e indovinelli

Versione italiana di un post del gennaio scorso (Le Salento et sa culture orale : chansons, proverbes et devinettes)

 

Fotografia di Luca Bolognese (Salento Antiche Suggestioni)

Cultura orale e musicale del Salento: canti, proverbi e indovinelli



            Nel mese di novembre scorso, ho fatto una breve gita in Puglia, nel Salento, una terra davvero affascinante, tra l'Adriatico e il Ionico, coperta di pietre bianche e di olivi giganti, popolata da più di un milione cinquecento mila abitanti dispersi in una fitta rete di piccole città, borghi e paesi, dalla pianta a scacchiera con un'architettura del tutto sudista che fa subito pensare alla Grecia, ma anche alla Spagna, sotto la dominazione di cui la regione è rimasta a lungo.

            Mi piace tornare in questo territorio, che ha molto da offrire. I suoi abitanti, tra altro, sono di una sorprendente ospitalità, quasi imbarazzante per noi Francesi. Ci andavo per parlare di un filosofo nato nel grosso paese di Taurisano, finito poi sul rogo per bestemmia e ateismo piazza del Salin a Tolosa nel 1619, dopo avere avuto la lingua strappata. Si chiamava Giulio Cesare Vanini. Sul suo destino tolosano, bisogna assolutamente leggere il bellissimo romanzo di Robert Lafont, L’Eroi talhat. Tutta la prima parte racconta, sotto forma di uno scambio epistolare dallo stile abbagliante, la permanenza del Vanini nei dintorni di Tolosa, il suo processo e il suo supplizio. Orbene, un concittadino del filosofo, Francesco Paolo Raimondi, ha pubblicato qualche mese fa le sue Opere, d'ora in poi disponibili sia in latino che in italiano.

           D'altronde l'ironia della sorte volle che, a Taurisano stesso, onde il progetto di erigere una statua alla memoria di Vanini rappresenta un importante impegno ideologico, incontrassi uno scultore (D. Minonni) che stava realizzando un sarcofago di marmo bianco molto suggestivo destinato ad accogliere i resti di una giovane donna che morì qualche anno fa di un tumore al cervello: Mirella Solidoro. Malata fin dall'infanzia, diventata cieca, riceveva nella sua stanza delle persone in lutto che confortava e a cui, da quanto ho sentito, forniva informazioni sui loro parenti scomparsi; la Chiesa parla di un ruolo di intercessione, tramite l'esperienza della propria sofferenza, assunto dalla ragazza per le anime del purgatorio. Una parte della popolazione nutre una vera devozione alla sua memoria e si impegna a farla beatificare. Il grande sarcofago di marmo sarà collocato in una cappella di una chiesa di Taurisano. Questo corto circuito tra, da una parte, un ateo dell'inizio del Seicento, che si è beffato nei suoi testi delle sciocchezze sull'aldilà e dei pseudo-miracoli nella chiesa di Presicce vicina aTaurisano e, da un'altra parte, questa santa di oggi, dice molto, mi sembra, sui forti contrasti della cultura salentina.

 

Griko e Salentino

           Come ho già avuto modo di dirlo in un post di qualche anno fa, (Un viaggio nel paese dei "dialetti": il Salento e le sue lingue), oltre all'italiano, nel Salento si parla, in questa zona chiamata Grecia salentina, il griko (grico), oppure gricanico, idioma di base greca, la cui sopravvivenza è oggi minacciatissima. In olte, dovunque si sente il salentino, spontaneamente identificato come “dialetto” (a seconda della distinzione tanto consolidata quanto discutibile tra lingua – termine riservato all'italiano –, dialetti e lingue allogene; la nozione di lingue regionali o minoritarie incontrando molta difficoltà per imporsi. Si veda in proposito l'articolo di Amedeo Messina). Il salentino è un idioma ancora usatissimo, in varianti numerose, ma minori. Rimane in effetti la lingua di comunicazione privilegiata et prediletta di una parte cospicua della popolazione, senza però usufruire di un vero riconoscimento culturale, o allora solo secondo le sue funzionalità proprie, che lo pongono in una relazione di completa esteriorità nei confronti della cultura « colta », appannaggio dell'italiano. Di fatti, il turista un po' curioso troverà numerose raccolte di proverbi e canti (ci tornerò), di racconti e di barzellette in salentino, molti libri di poesia anche, e alcuni raccolte di commedie, interpretate da truppe per di più amatoriali, ma spesso eccelenti... Questo ordine funzionale è una evidenza per tutti quanti i locutori e non verrebbe in mente a nessuno (o quasi) di metterlo in dubbio.

           Per il griko, le cose vanno del tutto diversamente. Da un lato la lingua è moribonda e richiede o richiederebbe – un grande impegno pubblico per salvarla (situazione di cui molta gente è ormai cosciente, ma che ne induce molti a dichiarare che i giochi sono fatti e che tutto è ormai inutile). Esistono, è vero, timidi tentativi di introdurla nelle scuole, e c'è un progetto, a Calimera, di creazione di un istituto scolastico di griko aperto a tutti. Siamo però a mille miglia del metodo di tipo immersivo, l'unico capace di creare locutori quando la lingua non si parla più, o quasi più, in famiglia). Da un altro canto, il griko, tramite il suo più nobile e antico pedigree, gode senz'altro di una fama maggiore al salentino, dopo essere stato considerato a lungo inferiore al “dialetto” più diffuso, che però, continua a sostituirlo ovunque. In Grecia salentina, si sono costituiti gruppi musicali che promuovano il griko, come l'eccellente Ghetonia (Vicinanza), di cui raccomando la versione del canto-feticcio dei Greci del Salento, Are mou rindineddha (Chissà rondinella). Esiste in effetti, senza nessun dubbio, in Grecia Salentina, una forte coscienza culturale, associata al griko, ma anche e sopratutto al revival della tarantella (sotto la sua forma salentina detta pizzica, con l'impressionante festival « La Notte della Taranta » a Melpignano ogni mese di agosto), che trascina con se tutta la mitologia del tarantismo e anche un po', ma troppo poco, della sua memoria etnologica ed storica.

taranta6

Tarantella e tarantismo

            I gruppi che cantano e ballano la tarantella sono molto numerosi: bisogna citare almeno l’Officina Zoe e la famiglia Zimba d’Aradeo, di cui il patriarca carismatico, Pino Zimba, all'anagrafe Giuseppe Mighali, è purtroppo deceduto nel 2008 (si veda in linea, ad esempio, la ripresa di un suo concerto). La fortuna storica della pizzica è il suo ritmo in 6/8 dato dal tamburello, la velocità di cui non ha nulla da invidiare alle danze più frenetiche del ventesimo e del ventunesimo secolo. Il successo del genere è senza dubbio dovuto, per una gran parte, al fatto di essersi trovato in perfetta sintonia con il processo moderno di accelerazione ritmica. Presenta anche il vantaggio di poter essere facilmente assorbito dall'immaginario neo-sciamanico. La pizzica è generalmente cantata in salentino.

          In sottofondo, c'è quindi il fenomeno davvero affascinante del tarantismo, una grave malattia psicosomatica che colpiva le donne (ma anche più raramente gli uomini) della campagna che lavoravano per di più a giornate nelle masserie, male ciclico, assegnato dalla cultura salentina al morso di un ragno (o, talvolta, di uno scorpione o di un serpente). Quando le crisi sopraggiungevano, di solito all'inizio dell'estate, la malattia veniva curata con un rito magico-religioso basato sulla musica e il ballo: un gruppo di musicisti si recava a casa della tarantolata e suonava per indurre la donna a « ballare », sdraiata, strisciandosi sul pavimento, ma anche in piedi, spesso per diverse ore e diversi giorni, fino a quando « il santo », Paolo, protettore dai morsi dei serpenti e degli insetti, concedeva la « grazia » di una guarigione almeno provvisoria. Bisogna leggere almeno in proposito il gran libro di etnologia di Ernesto de Martino, pubblicato nel 1959: La Terra del rimorso. De Martino, in effetti ha studiato con eccezionale acume i contenuti culturali e le condizioni sociali e psicologiche del fenomeno. In strettissima relazione con De Martino, bisogna anche rammentare i lavori dell'etnomusicologo Diego Carpitella (La Terapia coreutico-musicale nel tarantismo, 1960, inserito nel libro di De Martino).

           Dal mio ultimo soggiorno sono tornato con un libricino del regista Gianfranco Mingozzi, che  tra altro fu l'assistente di Fellini, ma che ha anche collaborato con De Martino. Per l'appunto, questa pubblicazione è dedicata al suo documentario intitolato La Taranta, il primo ad avere mostrato tratti del rituale del tarantismo e anche del « pellegrinaggio » molto particolare che le tarantolate facevano il 18 di giugno alla chiesa dei Santi Pietro e Paolo di Galatina. Il film è stato girato nel 1962, quando ormai il fenomeno era già in fortissima regressione[1]. Il DVD è allagato al libro, ma lo si può anche visionare sul web (in due parti). Bisogna assolutamente vederlo, tra altro per questo incredibile passo in cui la tarantolata di Galatina, Lea, che balla già da ore e ore, apostrofa in dialetto l'immagine di San Paolo appoggiata sui ginocchi del figlio di sei anni seduto accanto a lei. Chiede la grazia al santo con tono di rimprovero: « ... no, non aggio soldi pe’ dirti la messa... Ti debbo dare la gamba ? Me la posso tagliare ? ». Il Santo, per la bocca della donna, rifiuta di concedere il sollievo; lei, presa dalla rabbia, molla un pugno all'immagine che oscilla sui ginocchi del bimbo e  la donna torna a ballare, con rassegnazione. Il film è accompagnato dalla voce fuori campo del famoso poeta Salvatore Quasimodo, che declama un testo scritto apposta per il film, un testo molto contenuto, piuttosto sobrio e ben informato (il poeta aveva letto De Martino), evidentemente in un italiano perfetto. Invece, tranne qualche parola della tarantolata, il popolo del dialetto no ha voce in capitolo. È l'etnologo, per la bocca del poeta, che dice tutto quello che c'è da dire... Un uomo almeno però, il quale gioca un ruolo essenziale nella seduta di Galatina, aveva senza nessun dubbio molto da dire: il violinista e cantante Luigi Stifani, barbiere di professione, che curava le tarantolate con la sua musica. Suonava la pizzica in un modo incredibile e si possono d'altronde trovare in linea alcuni dei suoi pezzi registrati da De Martino e Carpitella (Pizzica tarantata, Pizzica indiavolata). Darò solamente qui una versione del testo del brano detto Tarantata, miscela esplosiva de devozione e di oscenità, che ci dice ovviamente molto sulla dimensione erotica del tarantolismo.

Santu Paulu miu te le tarante
Pizzichi le caruse a mminzu a ll’anche
Santu Paulu miu de li scusuni
Pizzichi li carusi a lli cujuni
Santu Paulu miu de Galatina
Ci l’ha fare la grazia falla mprima
Santu Paulu miu de Galatina
Nu fare cu lucisca cra mmatina
« Santo Paolo mio delle tarante/ pizzichi le giovani tra le gambe/ Santo Paolo mio degli scorpioni/ pizzichi i giovani sai coglioni/ Santo Paolo mio di Galatina/ se devi fare la grazia falla presto/ Santo Paolo mio di Galatina/ non fare arrivare il nuovo giorno prima di aver fatto la grazia. » (citato in L. Chiriatti, Morso d'amore, p. 108).

        Bisogna aggiungere che Stifani, morto nel 2000, fu una specie di etnomusicologo « selvaggio »; ha lasciato un diario dei suoi interventi rituali, in cui rifletteva sul fenomeno, « dall'interno » delle sue proprie pratiche (si veda Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate , ed. Amarirè, 2000). Questo diario è scritto in italiano.

Stifani_01

Luigi Stifani

Cantoa pare uce

          In un altro libro, pubblicato poco tempo fa dalla casa editrice Kurumuny di Calimera, Le Cicale - canti salentini di tradizione orale, viene però rammentato che la pizzica non era l'unica forma musicale usata per liberare dal tarantismo. L'autore, Luigi Lezzi, tramanda tra l'altro una canzone molto lenta – all'opposto quindi della pizzica –, Teresina, che fu molto probabilmente legata al rituale.

Tòre si e tòre no
Teresina l'hai fatta bella
l'hai pizzicata l'ha' addormentà
a pizzicariella
te pizzicàu chiù sutta te lu scanùcchiu.
(« Tore si e Tore no/ Teresina l'hai fatta bella/ l'hai pizzicata l'hai addormentata/ la pizzicarella/ ti ha pizzicata più sotto il ginocchio. »)

            Questo libro, accompagnato dal CD di una raccolta eseguita negli anni 60-70, contiene una serie di esempi di una forma di canto corale a capella chiamato « a pare uce » (a voci unite), che suona alle nostre orecchie molto più strano della pizzica. Questi canti di lavoro richiedono un gruppo più o meno importante di cantanti, in cui sono prestabiliti tre ruoli diversi, definiti in un modo chiarissimo da queste parole: « Jèu `ttacu, tìe la giri e tutti l’àutri se mìnanu e fànnu te bassu » (« Io comincio, tu mi rispondi e tutti gli altri si lanciano a fare il basso »).

            L’autore del libricino si sofferma sull'aspetto assolutamente singolare di queste voci registrate, ormai spente: un timbro sopratutto, impuro, rauco, di gente esposta al maltempo e, « specie nelle voci maschili », « risultato anche del tipo di tabacco fumato, spesso autoprodotto e mal conservato, e quindi di una cronica affezione bronchiale aggravata dalla particolare umidità degli ambienti di vita e di lavoro ». Queste parole e il CD stesso, mi hanno fatto ricordare un altro bellissimo CD allegato al libro di Giuseppe Mighali (Pino Zimba dunque), Zimba, voci suoni ritmi di Aradeo, sempre della stessa casa editrice (2004), che presenta una raccolta effettuata nella « famiglia » Zimba negli stessi anni (1976-1978), e in cui i cantanti hanno delle voci bellissime, a volta rauche, velate o fioche (bisogna sentire, in particolare il famosissimo canto di questua di Pasqua, San Lazzaru, che mi fa sempre venire le lacrime agli occhi[2]).

            A proposito della lingua dei canti, Lezzi fa notare che si tratta in fatti di un misto di « dialetto », usato per esprimere « i sentimenti più viscerali ed immediati », e d’italiano, «  riservato alle locuzioni più formali e impersonali ». Ne risulta una specie di « maccheronico », dice il musicologo, « una lingua artificiale propria del cantare che si vuole intenzionalmente distinguere dalla lingua parlata ». Basta citare il canto del (falso?) cappuccino elemosinante, di cui esistono numerose varianti :

Vistìtu ti cappuccinu jèni a bussà alli pòrti
E no no per carità non si bussa così
Tegnu na fija a lettu e me la fai morì.
Ma prima ti morìri facìtila confissàre
Ca bi lu fàzzu ìu lu pàtri cunfessor.
« Vestito da cappuccino vieni a bussare alle porte/ no so per carità non si bussa così/ tengo una figlia a letto/ e me la fai morire.// Ma prima di morire fatela confessare/ che ve lo faccio io il padre confessore ».

La storia si conclude con una nascita non gradita e con queste fortissime parole della madre disperata:

E ìu maletìcu il preste e il cuore che ci
Ha tratìtu ha la mia figlia che a letto sta
.
« Io maledico il prete e il nome che ha / tradito ha la mia figlia che a letto sta ».


Salento

          Si può d'altronde notare che il « dialetto » è nel Salento così associato alla parola e non alla scrittura, da essere usato allo scritto quasi solo per fissare produzioni orali, dette o cantate. Anzi, spesso, si tratta di discorsi restituiti al secondo grado. Prenderò come esempio il libro Morso d’amore di Luigi Chiriatti, un etnografo salentino (Lecce, Caponi ed. 2001), dedicato al tarantismo. Questa studio contiene numerosissime interviste, ma tutte condotte (o trascritte ?) in italiano: il salentino è onnipresente, ma sempre sotto forma di parole vive citate tanto dagli informatori, interrogati in italiano, quanto dall'autore stesso, per dare più forza al discorso. Ad esempio, per mostrare in una sua analisi la durezza delle condizioni di lavoro delle operaie del tabacco, che fu per molto tempo una delle maggiori risorse del Salento, Chiriatti cita poche parole di una di queste donne ma particolarmente significative ed espressive – perché in « dialetto » –: « Faticavamu comu ciucci de fatia, non te potivi fermare cu pensi mancu nu picca » (« Lavoravamo come asini da soma, non ti potevi fermare nemmeno un momento a pensare »). Poi, come elemento di prova (in ambedue i sensi), cita una canzone famosa: « Fimmene fimmene, ca sciati a llu tabaccu, ne siati doi e ne turnati a quattru » (« Donne, donne, che andate a lavorare il tabacco, andate dritte sulle gambe e ne tornate a quattro »), di cui si può d'altronde sentire in linea una bella versione a cappella di Simone Kalogheròpoulos Contaldi. Queste briciole di dialoghi, questi proverbi, motti e canti hanno il più gran valore espressivo – ma in quanto sono inquadrati e controllati dall'italiano – per rendere conto delle durissime condizioni di vita e di lavoro nel (o al margine del) sistema latifondista. Di modo che il salentino è minimizzato all'estremo e, nello stesso tempo, messo in scena nell' e dall'italiano, in quanto espressione diretta della verità; è incaricato di dire la verità nuda e cruda del popolo e della sua cultura materiale ed orale, che la lingua nobile e « letteraria » non può rendere in nessun modo.


tabacchaie

Proverbi e condizioni sociali

           A questo proposito, citerò ancora un libro appena stampato, che me fu gentilmente ragalato, dal titolo: Lavoro e proverbi nella società del bisogno. Taurisano tra’ 800 e 900 (Congedo, Galatina, 2010). L’autore, Vittorio Preite, si sforza di ricostruire la vita sociale, economica e culturale della città del Vanini in tempi ormai svaniti, ma ancora ben presenti nella memoria dei suoi abitanti (tenendo conto del fatto che siamo spesso gli eredi di una parte dei ricordi dei nostri genitori e dei nostri nonni), appoggiandosi su più di 360 proverbi raccolti a Taurisano, ognuno dando l'occasione di presentare un mestiere o un'attività, il più spesso tramite la rievocazione d'individui identificati con i loro nomi, cognomi e sopranomi. La mole di informazioni è davvero impressionante, e sorpassa di molto l'interesse patrimoniale dei Taurisanesi che trovano i nomi e cognomi dei lori antenati nell'indice. Ovviamente, i proverbi, materia orale per eccellenza, sono in salentino (con la traduzione in italiano), ovviamente il libro è scritto in italiano, ovviamente ancora l'autore cita a bizzeffe modi di dire, espressioni e parole in salentino, senza però, in questo caso, tradurli in italiano.

           Un esempio: facendo leva sul proverbio « Tutti i cori torti,/ nnanti e chiancimòrti » (« Cuori contorti,/ davanti alle piangimorti »), l’autore parla dell'istituzione delle prefiche, chiamate « chiancimorti » (« piangimorti »), sparite da decenni ma ancora presente nella memoria popolare (la pratica si era dunque mantenuta un secolo dopo la sua fine nel Béarn dove esisteva una tradizione simile, quella delle « aurostèras », di cui si parla fino a 1850[3]). La prefica lodava defunti che spesso non conosceva nemmeno, sfruttando un canovaccio prestabilito, però « facìa cchiàncine puru ‘e petre » (« faceva piangere le stesse pietre »), « spizzàva ‘u core ‘lli cristiàni » (« spezzava il cuore della gente »), anche se « ccerte fiàte a ìḍḍa no’ nnè scappàva mancu nna làcrima » (« a volte, non gli scappava neanche una lacrima »).

          Ma, appunto, queste frase non sono tradotte in italiano e questa scelta mette in evidenza che il libro è destinato ad un pubblico che sa il « dialetto », senza però che l'autore abbia avuto l'idea che parti intere del libro, in questo caso, avrebbero potuto essere composto nella parlata taurisanese. Ma sarebbe impossibile ad immaginarlo, perché la stessa evidenza che induce a sfruttare il più possibile il salentino per dare vita e verità alle descrizioni, esclude che si possa utilizzarlo per tutto quello che riguarda l'esposizione didattica o l'oggettivazione della realtà sociale e storica. Ad esempio, l'espressione, che compare nel titolo del libro, di « società del bisogno », non si potrebbe dire, in nessun modo, in « dialetto »: non certo per qualche difetto del lessico, ma solo per il tabù della diglossia. Invece, cosa potrebbe esprimere meglio la situazione sociale del proletariato agricole, vista appunto da coloro che la subiscono, che il proverbio in « dialetto » ?

Campa u missère ta carne malàta,
strazza u prete quiḍḍa ddifriscàta,
spurpa l’avvocàtu la stizzàta,
tutti lu tiempu futte a sciurnàta
.
«Vive il medico della carne malata,/ vivacchia il prete della sotterrata,/ spolpa l'avvocato quella arrabbiata/ il tempo fotte a tutti la giornata. »

            Questa acuità della percezione, questa visione insieme rabbiosa e fatalistica (del tutto antiprovvidenzialista), è proprio al centro di un libro scritto nel 1978, appena ristampato (oppure pubblicato per la prima volta ?), che mi è stato offerto presso la biblioteca di Martano, la sera della sua presentazione: Oppressione e resistenza nei proverbi di lavoro salentini (edizioni Panico, 2010), scritto da Nicola G. De Donno, che fu un instancabile raccoglitore di proverbi e di parole e, allo stesso tempo, autore di una serie di raccolte di poesie in salentino. Questo libro, che meriterebbe senz'altro una maggiore diffusione, è molto analitico, a volte di una teorizzazione esigente, e anche impegnatissimo. Da questo punto di vista è un'espressione tipica degli anni in cui è stato composto: per l'autore, i proverbi di lavoro esprimono la realtà sociale più immediata, le relazioni tra braccianti e proprietari, tra proletari e padroni. La ragione per cui si contraddicono così spesso o presentano delle ambiguità che conducono a delle interpretazioni contrarie, è che vengono usate tanto dai maestri quanto dai dipendenti.

Questa trattazione, così come la deplorazione per l'assenza di una « letteratura salentina colta [cioè, ovviamente, in italiano!] di contestazione », m’hanno rammentato quello che l'etnomusicologo Lezzi dice, nel suo libro sul canto a a pare uce, a proposito del periodo in cui egli stesso si era impegnato nella ricerca militante, periodo fausto (in confronto almeno agli ultimi decenni) per l'inchiesta e la colletta di elementi delle culture cosiddette popolari, ma erano anche tempi in cui tutti quelli che, come lui, condividevano questa passione, furono costretti a lavorare per anni fuori delle istituzioni, in quanto le due parti erano « nei versanti opposti della barricata ». Se si facessero paragoni con gli altri paesi dell'Europa dell'Ovest, si troverebbe, credo, grandi similitudini.

Nonostante il suo alto grado di generalità, l'opera di De Bono è anche essa ancorata nel luogo: tutti i proverbi sono stati raccolti a Maglie e nei dintorni. In un libro cosi esigente dal punto di vista teorico e interpretativo, è evidente che solo la materia prima, cioè gli innumerevoli proverbi citati nel testo, sono in salentino.

Daremmo qui alcuni esempi che dimostrano, mi sembra, la pertinenza della tesi del De Donno: Amore de patruni amore de scursuni (Amore di padrone, amore di bisce); Se cate l’arciprèite è ddiscrazzia, se cate lu sacristanu va mvriacu (Se cade l'arciprete è disgrazia, se cade il sagrestano va ubriaco); Cristu de sussu cràndina e ttempesta, Cristu de sutta se futte quiḍḍu ca rresta e nnui a mmenzu a ddoi altissimi rimanimu futtutissimi (Il Cristo di su grandina e tempesta, il Cristo di giù [il padrone] si fotte quel che resta, e noi in mezzo a due altissimi rimaniamo fottutissimi). « Anche la religione, scrive l'autore (d’altronde in un modo forse un po' troppo deciso), è una cosa della classe dei padroni, e perciò è poco capace di presa sul bracciante agricolo e sull'operaio ».

Concluderò con un ultimo esempio, che può sembrare innocente, ma che presenta un'ambiguità radicalmente trasgressiva per ogni forma di morale (se è vero che la proibizione dell'incesto è la base di tutte le nostre strutture sociali): Quannu àutru nu tteni, cu mmàmmata te curchi (Quando altro non hai, vai a letto con tua madre).

Jean-Pierre Cavaillé




[1] La Taranta. Il primo documento filmato sul tarantismo, Calimera, Kurumuny, 2009.

[2] Ce ne sono due altre bellissime versioni registrate, l'una a Collemeto nel 1976, l'altra ad Aradeo nel 1977 (quest'ultima tratta dal disco Musica Popolare del Salento, voci e strumenti: L. Rizzo, A. Micali, N. Carrozzo registrato da Brizio Montinaro), senza dimenticare la versione del gruppo GliUcci di Cutrofiano en 1979 (Antonio Bandello, Luigi Vergari, Antonio Aloisi, riedizione Luigi Chiaritti, Lecce, ed. Aramirè, 1999). Ma bisogna anche sentire e vedere in linea le video dei numerosi gruppi di lazzarini, che vanno di casa in casa nella Settimana Santa (dopo il tramonto: per quello le video sono spesso alquanto scure!) ad Aradeo (?) ancora, ad Alva, in un appartamente a Matino (2010) e, per finire, una bellissima versione « a casa di Mario », che merita di essere paragonata alla versione del gruppo Ghetonia. Queste video, spesso di scarsa qualità, danno però, un'ottima idea dell'atmosfera suscitata da questo canto, che molta gente sembra conoscere, anche tra i più giovani. Si trovano le parole, molto diverse secondo le versioni, sul sito La Terra del rimorso e su Stornelli salentini. Questi due siti contengono delle ricchissime collette di parole di canzoni in salentino.

[3];Nella sua introduzione, Luigi Montonato ricorda il nome di una certa Ntonia Pacella « capace d'improvvisare versi e piangere morti nei giorni di lutto o allietare i vivi nei giorni di festa ». Nella valle d’Aspe, nella montagna dei Pirenei guasconi, l’improvvisatrice Maria Blanga – Marie Blanque – , ritenuta una tra le ultime « aurostèras » (prefiche) è deceduta nel 1849. Si vede Maria Blanga- Marie Blanque (1765-1849), Auròsts. Era darrèra deras aurostèras dera vath d’Aspa, éd. M. Grosclaude, Per Noste, La Civada, 2004.

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Commentaires
C
Salud deoc'h/Bonjour<br /> Un petit mot qui n'a rien à voir avec l'article ci-dessus concernant un documentaire en occitan doublé en breton sur la bodega diffusé actuellement sur la télévision en langue bretonne sur internet, Brezhoweb (jusqu'au 31 mai).<br /> http://www.brezhoweb.com/Tous-les-programmes.html?rubrique=19<br /> Kenavo deoc'h
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