Dialetto, lingua e normalità : il caso sardo
(versione italiana del post precedente : Le sarde, une langue normale)
preso in prestito al sito sardo Tottus in Pari
Dialetto, lingua e normalità : il caso sardo
Di passaggio in Sardegna, l’estate scorsa, ho comprato un libro di Giuseppe Corongiu uscito da poco dal titolo Il Sardo una lingua « normale »[1]. Manuale per chi non ne sa nulla, non conosce la linguistica e vuole saperne di più o cambiare idea, precisa il sottotitolo. L’autore è direttore del Servizio Lingua Sardo presso la Regione autonoma di Sardegna. È legato al movimento indipendentista sardo, e questo conta assai, al mio parere, nella sua concezione del legame tra processo di normalizzazione linguistica e costruzione dell’identità nazionale sarda, anche se si sforza di non confondere entrambe le cose.
Questo libro, in effetti, non è proprio un manuale, anche se chi “non ne sa nulla” o poco, leggendolo impara molto sulla storia della letteratura scritta e orale sarda, sulla storia dei movimenti sardisti e sullo statuto e la situazione della lingua. Si tratta infatti piuttosto di un libro militante in cui l’autore assume una posizione ferma e decisa a favore dell’appropriazione da parte dei sardi della la loro lingua come lingua “normale”, contro la sua riduzione allo statuto di dialetto senza futuro, mentre viene formalmente riconosciuta in quanto “lingua” a tutti gli effetti, tanto dalla normativa nazionale (legge n. 482, del 1999) quanto dalla legge regionale (n. 26, del 1997).
L’orientalismo sardo
Il libro famoso di Edward Saïd sull’orientalismo, per l’autore, è la chiave interpretativa di questa situazione: i Sardi hanno accettato e assunto le rappresentazioni stereotipiche della loro cultura e della loro lingua: arcaismo, ruralità, immobilità insulare e pastorale, dimensione ostinatamente conservatrice della società… L’inversione di valore di questi stereotipi, dal negativo al positivo, non fa altro che confermarli, attraverso una rappresentazione idealizzata, come lo vediamo ad esempio nell’opera, d’altronde esclusivamente italiana, della scrittrice Grazia Deledda (premio Nobel per la letteratura 1926).
In modo che il lavoro di decolonizzazione non può essere, innanzitutto, che una lotta interna contro tutta una serie di falsi pregiudizi attraverso i quali i Sardi vedono se stessi, una somma di luoghi comuni imposti e indefinitamente ripetuti, specialmente dalle élite dell’isola. Saïd osservava che la filologia, insieme a una serie di altre discipline di carattere “scientifico”, è stata la punta avanzata della politica culturale coloniale in Oriente (definisce la filologia e tutte queste discipline come “surrogati naturalizzati, modernizzati e laicizzati del sovrannaturalismo cristiano”). Secondo Corongiu, mutatis mutandis, la stessa analisi critica va fatta per la dialettologia in Sardegna: “sono i filologi, i linguisti, i glotologi gli avversari più terribili del sardo e dell’autodeterminazione della Sardegna” (p. 50. Si nota ovviamente subito l’associazione tra la lingua e la questione dell’ autodeterminazione).
L’analisi è senz’altro attraente per chi, come me, rimane sbalordito dal lavoro in generale assai negativo, anzi distruttore compiuto dalla dialettologia italiana nei confronti di queste parlate che questa disciplina stenta ancora oggi a riconoscere come (vere) “lingue”, tanto il divario tra “lingua” (nazionale) / “dialetti” rimane costitutivo non solo nell’ideologia nazionale, ma anche per gli stessi accademici. È vero che gli studi sardisti rappresentano un caso estremo, l’imagine della lingua avendo l’incarico di esprimere in modo metonimico tutti i pregiudizi sui sardi. Allo stesso tempo, sono perfettamente rappresentativi della dialettologia oggi ancora praticata un po’ ovunque in Italia. Bisognerebbe dunque elaborare un concetto di colonialismo interiore molto più specifico, che si potrebbe anche applicare a una buona parte dei lavori sui “patois” e sui “dialetti” in Francia (anche se, in questo paese, le cose, al livello accademico, sono cambiate prima, senza però contribuire in modo significativo al mantenimento delle pratiche linguistiche).
A questo proposito, l’uso fatto dal sociologo Alessandro Mongili, nella sua notevole introduzione al libro, del concetto gramsciano di egemonia (“consenso diffuso e adesione dei dominati alla legittimità del potere e di che lo esercita”) è forse più appropriato. Mongili, in effetti, apre il suo testo introduttivo con una frase di Gramsci che non ha perso nulla della sua pertinenza: “Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale” (Quaderni del carcere, Quaderno 29, § 3 - 1935).
Luoghi comuni generali e specifici
Corongiu individua e confuta i luoghi comuni mantenuti dalla dialettologia. Il sardo sarebbe una lingua “arcaica”, più vicina al latino di qualsiasi altra lingua romanza. Sarebbe una lingua straordinariamente divisa e frantumata, tanto che gli stessi Sardi non si potrebbero capire tra di loro, se non da un villaggio a un altro, almeno secondo la loro appartenenza a due gruppi linguistici distinti: il “logudorese » e il “campidanese”. Il sardo non sarebbe capace di esprimere l’astrazione, di foggiare un lessico tecnico moderno, di prestarsi a una qualsiasi standardizzazione. Sarebbe una lingua autenticamente e esclusivamente popolare, che ogni impresa letterata e letteraria vizia e rende artificiale; ecc. ecc.
È facile da vedere che si tratta dei clichés invariabilmente applicati a tutte le lingue subalterne non standardizzate del mondo, associati a stereotipi specificamente sardi. Alcuni di questi luoghi comuni, ovunque presenti, sopratutto i più triviali, sono per noi fin troppo familiari; ad esempio l’affermazione ricorrente secondo cui l’uso della lingua subalterna ostacola l’apprendimento corretto della lingua nazionale; oppure il cliché, attivo ovunque ci sono insegnanti e professionisti specializzati in lingua regionale – da noi in Bretagna, in Corsica, in Occitania, ecc. – che vede la motivazione principale dei difensori della lingua nell’appetito del lucro : la corsa ai buoni stipendi dello Stato (!) o ai posticini bene al caldo nella regione di provenienza (in Francia ogni funzionario rispettabile deve cominciare la sua carriera il più lontano possibile da casa sua, basta leggere ad esempio lo speciale Canard enchaîné sulla Corsica) e, per le associazioni, nella promessa delle sovvenzioni abbondanti, spreco scandaloso del denaro pubblico.
Lo stereotipo dell’arcaismo linguistico, metonimia di quello che sarebbe l’arcaismo sociale dei Sardi, già presente in Dante, è stato decostruito da Susanna Paulis nel suo libro La Costruzione dell’identità (2006). L’autrice rimanda ai linguisti che hanno criticato l’idea di una vicinanza specifica del sardo al latino, la rappresentazione di una lingua rimasta “quasi” del latino (W. Manczack, G. Menshing, Th. Krefeld, P. Koch, W. Heringa…); Corongiu nota che, non per caso, uno solo tra di loro è sardo: Roberto Bolognesi, di cui si parlerà più oltre.
L’ambivalenza di questo topos dell’arcaismo della lingua è palesato nella complementarità di due idee che gli sono associate; l’una, negativa, d’incapacità all’astrazione, sostenuta da Max Leopold Wagner, e l’altra, apparentemente positiva, della purezza e della genuinità; l’unica “vera” lingua sarda essendo quella dei contadini e dei pastori (anche noi siamo confrontati alla nostalgia ruralista di grand parte dell’occitanismo).
Questa lingua concreta, primitiva e genuina, è anche strana e opaca, incomprensibile per tutti, anzi per quelli stessi che la parlano. Il mito de l’incomprensibilità del sardo – non posso fare a meno qui di farci un accenno – è spesso associato a due versi del XII secolo di una tenso bilingue – occitano/ ligure – tra il trovatore Raimbaut de Vaqueiras e la sua dama genovese, che gli dice: “No t’intend plui d’un Toesco/ o Sardo o Barbarì”: il tedesco, il sardo e il berbero (tamazight) ; tutte lingue incomprensibili !
Ma il sardo non si capisce, perché non è tanto una lingua quanto una confusione di dialetti; come dice il proverbio: “Chentu concas, chentu berritas”. Anche qui, la lingua è una metonimia politica: riflette l’anima di un popolo incapace di unità, secondo il topos della Sardegna terra dei “malunidos”. Ci sarebbe sopratutto questa scissione, questa separazione radicale tra due insiemi linguistici geograficamente referenziati, fortemente gerarchizzati: il “logudorese” e il “campidanese”. Questa differenziazione in effetti, si legge e si sente dovunque. Corongiu si sforza di dimostrare, in seguito ad altri autori, che non ha nessun fondamento valido. Il logudorese, più prestigioso, non è altro che “un’astrazione ideale dei dialetti centrosettentrionali” (p. 110) di cui il referente geografico, un’antica divisione politica (il regno giudicato di Logudoro o di Torres nei tempi in cui l’isola stava divisa in quattro giudicati indipendenti tra il X e XI secolo), non esiste più.
Ma sopratutto, non è in verità parlato in nessun luogo, perché il logudorese è uno standard letterario creato nel Cinquecento, in particolare dal vescovo poeta Girònime Araolla, usato a lungo in quanto modello per l’espressione scritta. Oggi ancora rimane la lingua dei contrasti poetici improvvisati (“gare di poesia”). Per quanto riguarda il cosidetto “campidanese”, riunisce le varianti meridionali simbolicamente screditate rispetto al logudorese, tanto più che Wagner, il papa degli studi sardisti, senza argomento valido, le considerava “corrotte” dal toscano dei Pisani.
Una lingua, uno standard
Lo statuto e la sorte delle varianti meridionali sono un punto di tensione importante, perché invariabilmente richiamati dagli accademici dialettologi (Corongiu dice in sostanza che l’unico mito che si impegnano a criticare, per poter meglio ribadire tutti gli altri, è precisamente quello della devalorizzazione – mancanza di purezza, di genuinità, ecc. – del campidanese) per combattere nel modo più feroce la prima tentativa di costituzione di uno strandard per la lingua scritta nel 2001 (LSU : Limba Sarda Unificada), che aveva, tra altri difetti, secondo l’autore stesso (che si è espresso varie vote sulla questione[2]), di basarsi quasi esclusivamente sulle parlate centro-settentrionali stimate più illustre. Innanzitutto, alcuni linguisti, come il francese di Grenoble Michele Contini, ma anche i Sardi Diego Corraine e Roberto Bolognesi, hanno dimostrato che la divisione tra logudorese e campidanese non è per niente giustificata ; la famiglia dialettale che compone il sardo è in fatti molto più unitaria sui piani della sintassi e della morfologia di quello che ribadiscono ancora oggi certi cattedratici.
Accettare questo dato, nonostante le differenze lessicali e soprattutto fonologici, è una cosa fondamentale, perché legittima la creazione di uno standard, almeno per quanto riguarda la lingua scritta (si ritiene del tutto “prematuro” per la lingua parlata); tale è la vocazione della Limba Sarda Comuna (LSC consituita dopo il tentativo fallito della LSU), standard pubblicato nel 2006 con la partecipazione e l’impegno, tra gli altri, di Giuseppe Corongiu e Roberto Bolognesi, sulla base della varietà esistente la più rappresentativa di tutte le altre (tramite il calcolo della distanza Levenstein): quella di Atzara e della sua regione. Questa norma comune di riferimento, concepita in quanto mediazione tra la diversità dei parlari, si presenta come l’equivalente sardo degli standard assunti in un passato vicino per il galiziano, il ladino, il friulano, il romancio oppure il basco.
La LSC fu, alla sua creazione, e rimane tutt’ora, dice l’autore, un vero “vaso di Pandora dei pregiudizi linguistici”, alternativamente accusata di essere una lingua “artificiale”, un “esperanto”, una lingua di “plastica”, un “OGM”, ecc. Mentre il progetto non è altro che di fare del sardo una lingua “normale”, proponendo una grafia ufficiale unificata e un modello standard scritto. L’autore compila il lungo elenco di coloro (alcuni ben noti in Francia come il filosofo Remo Bodei) che hanno attaccato il progetto con questo tipo di argomenti.
Il contro argomento proposto dall’autore mi sembra indiscutibile: tutte le lingue che dispongono di uno standard scritto sono “artificiali”; non c’è nulla di meno “naturale” che l’acquisizione di forme comune scritte e orali, ma l’ideologia linguistica nazionale produce sempre una naturalizzazione dello standard. Asserisce anche, al mio avviso giustamente, che ogni lingua letteraria tende alla standardizzazione. “La distanza, aggiunge, che una lingua letteraria crea dal parlato, segna anche il suo prestigio” (p. 194).
La LSC è uno standard che presenta una specificità politica; sin dall’inizio dispone di uno statuto ufficiale, dal momento che è stato prodotto da una commissione di linguisti presso l’Ufficio della lingua sarda (se Ufitziu Limba Sarda), diretto dall’autore, con il patrocinio della Regione Autonoma della Sardegna. Corongiu sottolinea l’importanza strategica dello sviluppo di una lingua capace di esprimere il diritto e la pubblica amministrazione. Non trascura il fatto che i primi testi in sardo, i condaghes composti tra l’XI e il XIII secolo, hanno avuto questo tipo di statuto (da noi anche, si potrebbe giustamente trarre l’attenzione sui cartulari comunali in occitano), ma si basa su un’osservazione attuale: “Per una lingua minoritaria che voglia dunque candidarsi al bilinguismo è necessario dotarsi di un tecnoletto giuridico-amministrativo che funga da base per la lingua ufficiale da utilizzare nella Pubblica Amministrazione” (p. 70).
È in questo modo che il 18 di aprile 2006, la Giunta regionale ha adottato la norma standard ufficiale e a questo fine ha pubblicato una delibera scritta nello stesso standard, il quale poi è stato usato per la composizione d’altri testi giuridici e amministrativi e sfruttato da alcuni scrittori (Gianfranco Pintore, in particolare). “Una lingua ufficiale trasmette di per sé una percezione positiva e funzionale. È considerata utile economicamente e desiderabile socialmente” (p. 76). Lo standard è anche “standardo”, valorizzazione e promozione simbolica – e effettiva – del sardo, da parte dall’istituzione regionale. Si è cosí già imposta, secondo l’autore (il quale, certo, è giudice e parte), in quanto “sistema-modello ortografico il più usato”.
Corongiu ribadisce varie volte che la “norma di riferimento”, il “modello, può anzi deve convivere con le specificità orali presenti” nel territorio (p. 128). D’altronde, asserisce, per me in modo assai imprudente (perché troppo generale) che “la presenza di una lingua standard comune, non solo non danneggia i dialetti locali, ma anzi li protegge e li individua” (p. 63. Fa l’esempio del Sud Tirolo, dove la lingua ufficiale è il tedesco standard). Non si tratta, egli sostiene, di riproporre il cliché “una nazione, una lingua”, ma di assicurare la sopravvivenza del sardo in quanto lingua “normale”, “rappresentativa di un popolo” invece di un sistema “policentrico” senza “prestigio e legato all’idea di dialettalità”, dipendente della “lingua-tetto” italiana (p. 130). Èssa è chiaramente, e l’autore gioca a carte scoperte, una scelta politica.
Classe dirigente e classe subalterna
Il progetto è chiaramente di stampa nazionalista, anche se l’autore fa la distinzione, in una recente intervista, tra la creazione di uno standard e il progetto nazionale. Non mi permeterei di dare il minimo giudizio su una posizione politica del tutto rispettabile, ma avrei qualche riserva sul suo modus operandi che, al mio parere, pone un problema di democrazia. In effetti, secondo Corongiu spetta a una élite di agenti culturali e di eletti la realizzazione e diffusione dello standard, in quanto modello superiore, aureolato del prestigio del potere e del sapere. Questa concezione elitaria viene ad esempio espressa nella frase citata sopra a proposito dello standard letterario a distanza dalla parola, frase che l’autore conclude dicendo che si tratta di un modello “pronto a essere utilizzato da una classe dirigente nazionalista” (p. 194).
Disvela così l’impianto ideologico del progetto, che rientra, gli piaccia o no, nella tradizione delle costruzioni linguistiche nazionali e nazionalisti, concepite come iniziative di una “classe dirigente”, trascinando dopo di se le masse popolari, o meglio, imponendosi a esse. Qui sta per me il limite di questo modello storicamente accertato, ma forse anche superato.
Da un lato, infatti, Corongiu denuncia con grande coraggio il tradimento linguistico e culturale delle classi dirigenti insulari: giornalisti, politici, imprenditori, sindacalisti, accademici hanno massicciamente aderito al modello italiano (a sua volta ispirato, attraverso Napoleone, disse Corongiu, dal modello monolingue francese, vero e proprio antimodello per tutte le lingue minoritarie), hanno smesso di trasmettere la lingua e hanno contribuito a creare e a mantenere tutti i pregiudizi che abbiamo visti. È una situazione che conosciamo noi stessi fin troppo, per subirla ogni giorno, e che ci porta, come Corongiu, a la più grande diffidenza nei riguardi delle produzioni accademiche sulla lingua e la storia delle classi popolari. “Forti con i deboli e deboli con i forti” è un adagio che si applica perfettamente, ancora oggi, alla maggior parte dei lavori di storia linguistica e di storia culturale, tanto in Francia quanto in Italia.
Corongiu, in particolare, mentre si dice chiaramente di sinistra, riepiloga la storia disastrosa e straziante degli atteggiamenti e reazioni dei partiti di sinistra in Sardegna e innanzitutto del Partito Comunista Italiano, nei confronti della lingua sarda e delle rivendicazioni sardiste. Per la maggior parte degli intellettuali communisti sardi l’emancipazione del popolo richiedeva la morte del “dialetto”, sinonimo d’ignoranza e d’arretratezza. Bisogna dire però, come lo fa notare Roberto Bolognesi nella sua recensione, che tutti i gruppi di sinistra non erano sulla stessa linea: Corongiu, dice Bolognesi, avrebbe potuto fare almeno il nome di Democrazia Proletaria Sarda, che negli anni 70 provò di conciliare l’identità sarda con la storia della sinistra internazionalista.
Ad ogni modo, in Sardegna come altrove – Corongiu ci insiste molto –, sono state le classi popolari ad avere portato la lingua fino al ventunesimo secolo, anche se non ne assicurano più la trasmissione regolare (tranne in alcune zone). Come altrove anche, sono esse, quando si consente a consultarle, che si pronunciano in massa a favore della sua protezione e del suo insegnamento. L’ha ampiamente dimostrato un’inchiesta recente (80% degli intervistati si dichiarano a favore dell’insegnamento della lingua) a cui ho accennato in un altro post; è stata una sorpresa per gli stessi accademici coinvolti nel progetto, tra cui, da quello che si può dedurre dalla lettura dei testi aggiunti ai risultati, alcuni, fossero stati interrogati, si sarebbero mostrati probabilmente molto meno positivi dei loro intervistati. Anche la domanda a proposito della costituzione d’uno unico standard scritto ha suscitato delle risposte largamente positive.
Eppure Corongiu non smette di esprimere spontaneamente una concezione del “popolo” o della “popolazione” come soggetto passivo e attribuisce all’intellighenzia (quella giusta!) un ruolo da guida. Ad esempio quando scrive, in modo generico: “nel caso delle lingue cosidette ‘minoritarie’, cioè le lingue in difficoltà a rischio di estinzione, è proprio il giudizio percettivo, positivo o negativo, dato o indotto alla popolazione, che decide sul loro destino e futuro” (p. 60 i corsivi sono miei). In questi processi della morte de la lingua e della sua sopravvivenza la popolazione dei locutori è meno agente quanto agita. Leggo ancora: “la gente, se non è educata dallo Stato o dai media, tende a parlare la sua lingua frammentandola in molti dialetti” (p. 62). Il popolo, dunque, deve essere indotto e condotto dallo Stato e dai media, a scrivere e – idealmente – a parlare una lingua unitaria ; allo stato brado, abbandonato a se stesso, non produce altro che la divisione, la frammentazione. Mentre è ovviamente la variazione a darsi naturalmente e spontaneamente; l’unificazione dallo standard è sempre costruito a posteriori, in un processo in cui la gente, infatti, anche quando non è sollecitata in quanto soggetto e attore politico a pieno titolo, ha sempre voce in capitolo, fosse solo perché sono i parlanti ad usare o non la lingua e ad appropriarsi o meno le forme e i livelli di lingua che sono dato a loro come modello.
Stavo riflettendo a questo problema di quale potrebbe e dovrebbe essere un quadro democratico di rivitalizzazione (e di standardizzazione) linguistica, quando ho letto la recensione di Roberto Bolognesi al libro di Corongiu, in cui si può leggere, mi sembra, una critica similare. La posizione dell’autore è per Bolognesi rappresentativa della concentrazione dell’attenzione sugli sforzi che mirano a fornire una forma scritta prestigiosa al sardo, i quali però tendono a trascurare gli usi più comuni della lingua, che non hanno smesso di andare diminuendo mentre si sviluppava lo standard prestigioso. “Dobbiamo assolutamente evitare che il sardo faccia la fine dell’irlandese: lingua di un’élite intellettuale, sconosciuta alla stragrande maggioranza del popolo.” Questa riflessione ci tocca direttamente, perché siamo esattamente in questa situazione (lascio da parte la questione se è davvero cosí in Irlanda), mentre spariscono gli ultimi locutori “naturali” (e popolari !) dell’occitano ! Perché, su questo piano, purtroppo, noi altri Occitani siamo molto avanti in paragone ai Sardi nello scenario all’irlandese; quello che ci permette di non caderci del tutto, è proprio il fatto che la lingua non giova tuttora di quasi nessun prestigio pubblico e rimane tuttavia ancora un’affare “popolare”, almeno nella mente dei suoi fautori, i cui, disprezzati dalle élites nazionali, non possono non sentirsi, al prezzo di alcune illusioni, l’indole popolare, anche se i loro mezzi per rendere la lingua popolare sono molto limitati. Più che una classe dirigente che parla e promuove la lingua (scenario nazionalista tradizionale, allo scopo di rinnovare l’egemonia di classe, con Gramsci), quello che manca in Occitania, come in Sardegna, è di creare le condizioni favorevoli per una dignità ritrovata e attiva dei locutori reali o potenziali delle classi popolari, un “empowerment” linguistico. Per arrivare a questo, l’ufficializzazione della lingua, il suo riconoscimento e uso pubblico sono ovviamente importanti, ma non bastano.
Jean-Pierre Cavaillé
[1] Giuseppe Corongiu, Il Sardo una lingua « normale ». Manuale per chi non ne sa nulla, non conosce la linguistica e vuole saperne di più o cambiare idea, Cagliari, Condaghes, 2013.
[2] Oltre il libro qui recensito, si veda l’articolo del 2006 on line : Limba sarda comuna: prima storia, spirito politico e forma futura.