La riserva degli indiani metronapolitani
Une version de cet article, avec des illustrations différentes et des légendes assez drôles, est publiée sur le site de l'Istituto Linguistico Campano.
Sur ce même site, on lira une réponse de Nicola De Blasi aux ciritiques ici formulées : "Napoli e il napoletano".
Spaccanapoli
La riserva degli indiani metro(na)politani
Appena tornato da un viaggetto a Napoli mi sono imbattuto, un pò per caso, in un articolo del 2002 di Nicola De Blasi, docente di Linguistica italiana nella Università Federico II, dotto napoletanista e noto curatore di testi antichi e moderni, scritti in quello che il professore chiama ostinatamente, come tanti altri « linguisti » suoi colleghi, « dialetto » napoletano. Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, recita il titolo del cospicuo saggio apparso nella rivista Lingua e Stile, con il quale offre un’analisi sociolinguistica della realtà sociale e delle peculiarità linguistiche del cosiddetto « dialetto » parlato oggi[1]. Non discuterò in questa sede della scelta, tra l’altro non espressamente giustificata, dell’uso del termine « dialetto », a dir vero poco scientifico, che presuppone necessariamente, nella bocca di chi lo usa, la validità del giudizio di valore sull’inferiorità linguistica (se si può usare un concetto così estraneo alla sociolinguistica) attribuita all’idioma partenopeo nei confronti della lingua nazionale. Ma, in fondo, le poche critiche che seguono potrebbero ricondursi tutte quante a questa interiorizzazione dell’inferiorità non solo fattuale e storica, bensì essenziale, quasi ontologica dei « dialetti ». Questa ontologia, come si vedrà, è però quella del sociale e quindi della cultura, nel senso che il « dialetto » sarebbe in quanto tale (cioè « dialetto » e non « lingua ») l’espressione di una emarginazione sociale, di una chiusura e quindi di un’arretratezza culturale.
Non essendo uno specialista e neppure un buon conoscitore della realtà napoletana, di cui ho una visione forzatamente (quasi) tutta esterna (non vivendo a Napoli e leggendo, ma non parlando, la lingua napoletana), non sono certo in grado di giudicare i dati descrittivi presentati nello studio di De Blasi. Vorrei perciò qui porre in discussione il linguaggio e gli attrezzi concettuali da lui usati per condurre la descrizione, perché mi sembrano imporre sulla realtà napoletana una griglia di lettura profondamente permeata di pregiudizi ideologici e di classe. In altre parole mi propongo di fare qualche accenno di critica sociale a un certo modo di praticare la sociolinguistica, ovvero a quando questa disciplina si impegna a rendere e ridurre alla mera costatazione dello statuto economico-sociale dei locutori le numerose questioni poste oggi dalle lingue minorizzate, sulla loro presenza ostinata nonostante l’agonia annunciata, sulle loro forze e debolezze, sulla loro inerzia ma anche resistenza, sulla loro tentazione arcaicizzante ma altrettanto sull’impulso innovativo, e ormai sulla rivendicazione di una pubblica tutela, attualmente proclamata in ogni carta dei diritti umani.
Dirò poche parole sui dati descrittivi, che mi sono apparsi di notevole rilievo[2]. L’autore contesta quanti credono di poter asserire che vige tuttora a Napoli « un uso trasversale del dialetto » rinviando « ad una compatta identità culturale di fondo » (p. 123). « L’osservazione diretta della realtà cittadina conferma, al di là di ogni dubbio, che il dialetto è oggi molto usato [...], ma con una differenziazione diastratica [cioè tra diversi strati sociali] e diatopica (tra quartiere e quartiere) forse oggi avvertibile più che in passato » (p. 124). In un passato ormai remoto (non meglio precisato nell’articolo), Napoli era « una città diffusamente dialettale. Tale unità si collegava tra l’altro a una certa uniformità tra diversi quartieri, tutti caratterizzati da una vicinanza, a stretto contatto di gomito, tra abitanti di ceti diversi i quali, pur divisi notevolmente quanto a condizioni sociali e livello culturale, popolavano il medesimo ambiente urbano » (ibid.). D’altronde la stratificazione verticale dell’antico palazzo napoletano, in cui convivevano i diversi ceti della città in stretta relazione, anche ovviamente linguistica, è una cosa ben nota. Oggi questa comunità di vita e di linguaggio non esisterebbe più: ci sono quartieri popolati da persone che non parlano più il dialetto, o che non sono di origine napoletana, e altri invece, anche nuovi, dove il dialetto rimane molto vivace, anzi dominante negli scambi quotidiani. L’elemento decisivo però sarebbe la rottura sociale tra gli uni e gli altri: l’esistenza di due Napoli.
Tuttavia incontriamo qui un primo problema, perché questo tema delle due Napoli, non è certo nuovo, e segnerebbe una continuità piuttosto che una rottura. D’altronde, l’autore stesso scrive: « è ancora attuale la constatazione con cui Vincenzo Cuoco spiegava il fallimento dell’esperienza rivoluzionaria del 1799 » (p. 128). Viene appunto citato un passo del famosissimo Saggio storico sopra la rivoluzione napoletana: « le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi avevano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse »[3]. De Blasi però ha appena spiegato che la spaccatura sociale si verificava in quei tempi nel medesimo spazio urbano, anzi nello stesso spazio privato del palazzo, tra siti che avevano proprio la lingua napoletana in comune. Ora, la situazione attuale, così come viene descritta dall’autore, è completamente diversa: per farla breve, ricchi e poveri non abitano più gli stessi quartieri e non parlano la stessa lingua. Socialmente, si verificherebbe così un’adeguazione tra povertà, emarginazione, analfabetismo e dialetto, e un’altra tra benessere sociale, livello medio o alto di istruzione e uso quasi esclusivo dell’italiano. Questi dati però non possono che suscitare certi dubbi: prima di tutto perché non sono risultati di studi statistici e di indagini complessive, ma il frutto dell’ « osservazione interna », cioè « senza lo schermo di convinzioni filodialettali preconcette o ideologizzanti ». Ora, noi, dall’esterno appunto, non vediamo che cosa garantisca « l’osservatore interno », in conflitto aperto contro le « convinzioni filodialettali », dai pregiudizi e dall’ideologia (diremmo repubblicana di stampo filo-giacobino, sorda all’autocritica del Cuoco[4]), visto che non si appoggia su metodi d’indagine affidabili. Anzi, la sola tabella riprodotta, estratta dal volume intitolato I grandi comuni. Napoli, del 1991, dà delle medie sui livelli d’istruzione, tanto per la città che per i singoli quartieri, uguali o comunque non tanto dissimili dalle medie nazionali: non permette dunque di dimostrare un qualsiasi legame specifico di Napoli tra basso livello d’istruzione e vitalità del dialetto.
Nondimeno si tratta qui di una convinzione ideologica, difesa con argomenti di altri tempi. Lo stesso Cuoco, malgrado i suoi preconcetti, tipici degli illuministi verso il popolo, ci appare molto più aperto e afferra in un modo più critico e sottile il problema della spaccatura tra le due culture politiche del popolo e delle élites. In effetti, tutti i pregiudizi della storia delle mentalità, ormai confutati da tempo dalla stessa antropologia che ne aveva coniato il concetto all’inizio del Novecento, sono presenti nel ritratto, o piuttosto nella caricatura, dei locutori del dialetto: sono analfabeti o quasi (ma l’abbiamo detto, le cifre non girano), cioè sommersi nella « cosiddetta cultura dell’oralità » (p. 136). Codesta viene definita come « un universo mentale organizzato secondo le coordinate delle consuetudini tradizionali locali, mal tollerando innovazioni, privilegiando usanze e idee che si fissano in comportamenti rituali e proverbi. Più che il confronto dialettico, nella cultura dell’oralità prevale la tendenza alla contrapposizione, al contrasto esplicito tra opinioni radicalizzate, fino alla sopraffazione; prevale quindi una visione antagonista rispetto a ciò che è percepito come esterno o come diverso; estranea a questa prospettiva è l’abitudine all’astrazione e alla generalizzazione, poiché di norma ci si concentra sugli aspetti concreti, specifici e particolari (sull’hic et nunc più che sui principi generali, sulla convenienza immediata e personale, più che su regole precostituite, sugli usi radicati più che sul diritto astratto) » (p. 136).
Ho riportato questo passo per intero perché vi si trova un concentrato di tutti i pregiudizi pseudo-scientifici dei « giorni felici » dell’antropologia coloniale, e dell’equazione, che oggi nessun antropologo accetterebbe più, tra oralità e rifiuto dell’innovazione, incapacità all’astrazione, allo scambio d’opinione e alla deliberazione ragionata, immersione nel concreto, nel particolare, nell’immediato, nell’emozione... L’unica differenza è che qui non si tratta della « mentalità primitiva » di Lévy-Bruhl, ma della « mentalità dialettale ». La cosa più buffa, o alquanto goffa, è quella di attribuire a questa mentalità l’individualismo e il menefreghismo tipici – secondo l’autore – dei quartieri dialettofoni, questa volta in completa contraddizione con la visione stereotipica olistica e comunitaria (quindi controllatissima), delle società primitive o tradizionali: « chi vive nel proprio ambiente abituale secondo i canoni di una mentalità, per così dire, « dialettale » o orale, si sente legittimato a seguire comunque le proprie consuetudini e i propri comodi senza alcuna limitazione » (pp. 143-144). Basta questa citazione, mi sembra, per dimostrare come un discorso che si pretende scientifico, peraltro pubblicato in una rivista destinata a un pubblico universitario, possa così pesantemente ricadere nel più volgare vituperio.
A prescindere da questa contraddizione grossolana, la lettura primitivista della società dialettale è comunque esplicita nel saggio. I dialettofoni sono una specie di primitivi, quali selvaggi astretti nelle loro « riserve ». In effetti l’autore si spinge fino a dire come Napoli « sia diventata una variegata combinazione di quartieri italiani e di riserve di napoletano » (p. 145). Anche se si volessero trascurare i connotati antropologici e politici della parola « riserva », anche se fosse provata la stretta separazione spaziale tra dialetto e italiano (in questo articolo è solo un’asserzione non dimostrata), il termine « riserva » non conviene a una società in cui la stragrande maggioranza della popolazione parla il dialetto. L’autore asserisce che i quartieri dialettali siano delle « reti chiuse », al contrario delle zone italiane, dette « aperte ». De Blasi si rifà ad una distinzione assunta dall’Introduzione alla dialettologia di Grassi, Sobrero e Telmon: « in una rete chiusa poche persone sono collegate da una rete di relazioni molto fitte », in cui « tutti si conoscono », mentre nella rete aperta « ogni persona ha relazioni con persone diverse, ciascuna delle quali ha relazioni con altre e così via, senza che mai il cerchio si chiuda » (p. 215, citato nel saggio p. 141). Qui incontriamo un altro pregiudizio che grava sugli studi di dialettologia perché, ovviamente, si può dimostrare con facilità, che anche nel paese più sperduto il cerchio delle relazioni non è mai chiuso, in quanto non c’è società senza scambi, spostamenti, gente che va e viene, stranieri di passaggio, e così via… Questa immagine di una società assolutamente chiusa su se stessa, immobile, è una mera finzione. Si potrebbe certo misurare nei quartieri di Napoli l’estensione e i limiti delle reti di relazione, ma richiederebbe un lavoro molto più serio del presente, per lo più radicato su convinzioni e umori personali. Ma quando si lascia il freno all’opinione soggettiva, come si sa, tornano sempre i pregiudizi del gruppo.
Una delle tare maggiori di questa civiltà cosiddetta orale è di rimanere « immersa » nel dialetto. Questa espressione poi è molto interessante e rivelatrice perché, anche non volendo, riecheggia l’unico metodo linguistico che permette d’imparare bene una lingua viva: quella del « bagno linguistico », ossia « didattica immersiva ». Più generalmente si può dire che una lingua è viva quando offre la possibilità dell’ « immersione orale ». Ma qui l’idea ossessiva è che non si può immaginare un progresso sociale e culturale del dialettofono senza un bagno prolungato, se non esclusivo, nell’italiano, di modo che l’uso del dialetto dovrebbe diventare una « libera scelta » (p. 156), e non più una « necessità ». Ma poi l’autore si sforza di mostrare che, quando il dialetto diventa una « scelta », viene solo usato in modo « riflesso », ovvero in modo ironico o nostalgico, prima di sparire tra le lingue morte. Ovviamente non si parla di « scelta » per l’italiano, considerato come lingua naturale del sapere, della cittadinanza, del progresso… Ma fino a quando? Lo stesso discorso ci condurrà fra poco, se non è già il caso adesso, a considerare l’italiano come un vecchio dialetto europeo ormai inutile, segno tutt’al più d’arretratezza sociale e culturale.
La lungimiranza non è il punto saliente delle analisi proposte nell’articolo di De Blasi. Vale la pena di soffermarci un pò su cosa viene inteso con i termini di « scelta » linguistica e di comunicazione riflessa. I « parlanti di istruzione elevata o medio-alta », secondo l’autore, ricorrono al dialetto solo in corrispondenza di una « scelta comunicativa marcata » (o « riflessa ») (p. 133). De Blasi cita in proposito un passo di Elisabetta Rasy (Posillipo[5]) per asserire che nella « borghesia medio-alta napoletana […] il dialetto è recuperabile solo a un livello riflesso, come citazione espressiva o come « lingua segreta » e ludica... » (p. 138); di conseguenza si può parlare di una « affettazione demotica, segno fittizio di un’identificazione linguistica non più possibile » (p. 139). È vero che questo uso « riflesso », inteso in questi sensi (il plurale qui è necessario, perché l’autore amalgama parecchie cose diverse), è presente in tutte le società diglossiche, quando i locutori della lingua « alta », ormai lontani dal dialetto, guardano alle loro spalle la lingua « bassa » abbandonata, e ne fanno un uso circostanziale tra di loro, un gioco ironico, espressivo, a volte colorato anche di nostalgia e di tenerezza. Al punto che lo stesso concetto d’uso riflesso vale per lo sfruttamento del dialetto « come lingua d’arte, musicale o letteraria ». E l’autore aggiunge: « In questi ambienti borghesi il dialetto si ritaglia un proprio spazio protetto nei domini della canzone, della letteratura o del teatro » (p. 138). Forse sarà così (anche qui però mancano dati affidabili)… ma stranamente il professore non dice niente della riappropriazione popolare di questa cultura dialettale cosiddetta borghese, particolarmente importante a Napoli (basta accennare alla canzone): è una prova di circolazione sociale del dialetto.
Comunque sia, l’uso cosiddetto riflesso non è certo il solo atteggiamento possibile dei ceti « colti » nei confronti della seconda lingua minorizzata. In primo luogo è chiaro che la diglossia si mantiene negli strati alti della società, quando questi devono trattare con i locutori della lingua bassa, fosse anche solo a scopo meramente mercantile. Inoltre la lingua disprezzata può pur essere l’oggetto di una riappropriazione positiva, un modo di potente identificazione culturale e politica, di cui gli esempi non mancano oggi in Europa, almeno laddove si è superata la concezione gerarchica peculiare alla situazione di diglossia per giungere a una concezione più egualitaria del bilinguismo. Scenario, questo, assolutamente estraneo alla visione dell’autore e che implica, mi sembra, una dinamica di rivendicazione dei diritti linguistici (si vedano gli esempi del catalano, del gallese, ecc.). La componente riflessa è certamente determinante in questa riappropriazione, ma termina per immettersi in un nuovo rapporto con la lingua, una nuova forma di spontaneità. Mi colpisce poi la concezione molto ottocentesca della cultura artistica e letteraria dialettale, come un fatto puramente elitario e borghese, perché quello che dimostra oggi la vitalità del napoletano, come di tante altre lingue minorizzate, è la loro capacità d’investire generi musicali di larga circolazione sociale (mi permetto qua di rimandare all’articolo di Rosario dello Iacovo pubblicato sul sito dell’Istituto linguistico campano e da noi tradotto in francese). La solo esistenza di questa cultura (mal) detta « giovanile » in dialetto, molto diversificata, basta a controbattere l’analisi strettamente classista dell’autore.
L’unico modo di sfuggire a molteplici contraddizioni e pregiudizi, sia per chi studia che per chi vuole prendersi cura di una lingua minorizzata, è quello di rifiutare di ridurla ai fattori sociali e culturali che hanno un senso solo nel processo stesso di minorazione linguistica e politica, e di rivendicare, nello stesso tempo, il riconoscimento simbolico della piena dignità dell’idioma originario e popolare in quanto lingua, e quindi la sua tutela giuridica e istituzionale.
Jean-Pierre Cavaillé
[1] Nicola De Blasi, Per la storia contemporanea del dialetto nella città di Napoli, Lingua e stile, XXXVII, juin 2002, p. 123-157.
[2] Non farò alcun accenno alla raccolta ragionata degli elementi innovativi del « dialetto » e delle caratteristiche dell'italiano locale basso, parte di maggiore interesse che avrebbe meritato, a mio parere, una pubblicazione separata.
[3] Nel testo di Vincenzo Cuoco non è d'altronde chiaro se queste « due lingue » siano il napoletano e l'italiano di Toscana. L'espressione, nel contesto del passo qui citato, potrebbe benissimo essere solo metaforica, in quanto dice che i repubblicani erano quasi diventati « francesi » o « inglesi », e dunque con le « due lingue » egli potrebbe riferirsi non tanto all'opposizione tra dialetto e lingua colta, ma a ben due modi di pensare e di afferrare la realtà.
[4] In effetti mi sembra che l'autocritica di Cuoco meriterebbe di essere meditata da quelli che mantengono una rappresentazione strettamente verticale dell'acculturazione politico-civile, ovviamente dall'alto verso il basso, in cui i modelli culturali e politici proposti, o piuttosto imposti, sono sempre quelli delle classi dominanti. Del resto è lo stesso Cuoco ad affermare : « Se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de' beni reali e liberato lo avesse da que' mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all'aspetto di novità contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse... chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di una sorte migliore ».
[5] Elisabetta Rasy, Posillipo , Milano, Rizzoli, 1997.