Due composizioni di Realdo Tosi, poeta carbonaio (1929)
Il fuoco corso pietoso e rio
Il servitore de' carbonai detto Mèo
Come per la raccolta dei funghi, ci sono dei giorni favorevoli per la ricerca documentaria, però alquanto rari. Quando riesco a trovare un po di tempo (e dunque con gran dilettantismo), mi occupo della cultura cosiddetta « popolare » dell’ottava rima, estemporanea o meno, tra altro legata al mestiere e alla vita « strapazzata » dei carbonai del Pistoiese (si veda qui l’articoletto dedicato all’Attribuzione e diffusione del Lamento del carbonaio). Non è, d’altronde, che abbia fatto una qualsiasi scoperta sull’argomento. Tutt’al più ho messo insieme un pò di documenti sparsi (in questo caso diverse versioni del Lamento del carbonaio e qualche studio). Venendo da tutto un altro campo, che tratta di letteratura più antica e meglio considerata, una cosa che mi stupisce e che mi eccita nella cultura etichettata come « popolare » e nella letteratura orale è la dispersione dell’informazione, il fatto che spesso non si trovano bibliografie aggiornate e banche dati affidabili.
Facendo questa ricerchina, mi ero imbattuto su un altro « lamento » di ben 27 ottave, intitolato La Canzone del Meo. Aimé Mucci, nel suo libro del 2002, ne dava in effetti una versione, considerandola anonima[1]. Questo canto mi è apparso bello e interessante quanto il primo.
Un carbonaio, in prima persona, racconta nei particolari più concreti la sua esperienza da ragazzino di appena 10 anni come « meo », costretto di guadagnarsi la vita dopo la scomparsa prematura del padre, con appena pochi mesi di scuola elementare alle spalle. Il meo era il garzone che nella squadra dei carbonai, durante una « campagna », faceva tutti i lavori piccoli della carbonaia. Sopratutto, quando non vi erano donne, era lui che cucinava per tutti e riforniva l’acqua. Nella canzone, sgridato di continuo dal capo-macchia, di notte come di giorno, senza un altro nome che quello generico, « Meo » è mandato a eseguire mille compiti faticosi e fastidiosi. Meo corre da uno all’altro impegno senza sosta, ubbediente, diligente, sempre rimproverato, mai gratificato. È la voce stessa del capo che si sente in buona parte delle ottave, sgranando l’elenco senza fine degli ordini e delle minacce, passando così in rassegna tutti gesti e usanze del mestiere. L’ex meo, ormai carbonaio maturo, si ricorda degli affanni, della fatica, della disperazione… e anche come, mandato solo nella notte a eseguire qualche lavoro, fu preso una volta dal timore, anzi dal terrore: sul luogo di un omicidio, sentì pronunciare nel buio il suo nome « Meo… », poi urli, risa e un’altra voce che gli diceva « tutto mio… », fino ad accorgersi che le voci dei fantasmi non erano altre che le grida degli animali notturni: allocco, civetta e gatto selvaggio…
La canzone è sempre così in bilico tra la denuncia dello sfruttamento del povero ragazzo e un umorismo assai amaro (« Ma col mio padrone, anche l’orina,/ Bisogna farla mentre si cammina »), con un gran senso della descrizione di tutti gli episodi della vita e del lavoro nel bosco. Per quello, il poema è anche un tesoro per i termini di mestiere e le espressioni peculiari della carbonaia.
Questo canto eccitava la mia curiosità e andai a trovare un bel giorno, due anni fa, Alfo Signorini, la fonte di Aimé Mucci, a Tobbiana, che mi fece una copia dell’originale suo del testo, insieme con la versione del Lamento del Carbonaio ripresa anche da Muci. Entrambi gli erano stati consegnati da vecchi carbonai, una ventina d’anni fa. Si ricorda sopratutto di un certo Pietro Nesi che nel paese di Tobbiana cantava la Canzone del Meo. Alfo Signorini mi fece anche vedere un bellissimo film documentario girato da lui stesso in nero e bianco negli anni 70 dedicato al mestiere del carbonaio, in cui si sentiva brani delle due canzoni.
Proprio lo stesso giorno, in una libreria della via degli Orafi di Pistoia comprò due libri. Il primo, nuovo di zecca, era intitolato Tre civette sul comò. I ricordi dei bisnonni. Raccolta di tradizioni orali, a cura di Rosanna Nerozzi (edizioni Il Metato, Pistoia). Il « concetto » di questo libro, con una prefazione di Claudio Rosati, è molto originale. La curatrice, maestra alla scuola elementare di Saturnana, fece realizzare ai suoi allievi un vero e proprio lavoro di colletta etnografica presso i nonni e i bisnonni. In questa raccolta cospicua figura anche una versione molto simile della Canzone del Meo, non attribuita, intitolata: La Storia del meo.
La seconda pubblicazione era un libricino usato del 1980, il piccolo catalogo di une mostra fotografica allestita dal comune di Pistoia: Il Carbonaio un mestiere in estinzione[2]. L’opuscolo presenta una serie di fotografie in nero e bianco di carbonai al lavoro, qualche spiegazione sulle fasi della lavorazione del carbone e qualche testimonianza sulla durezza del mestiere, ma anche la ripresa integrale di una piccola raccolta di versi in ottava rima pubblicata nel 1929 a Borgo val di Taro (tipografia Cavanna)[3]. Il poeta si chiama Realdo Tosi, di Pistoia, precisa la copertina riprodotta nel catalogo e il libricino contiene due delle sue composizioni: Il fuoco Corso pietoso e rio e… Il servitore de’ carbonai detto Mèo.
Era proprio la stessa canzone, e contava pochissime differenze, per un’opera passata (e probabilmente destinata) alla circolazione orale, in confronto alle due altre versioni. La sintassi e il lessico erano però, qua e là, più chiari, il metro e le rime più regolari. La Canzone del meo aveva dunque un’autore che si poteva insomma facilmente rintracciare. Questo testo conobbe pressoché la sorte del Lamento dei carbonai: chi tra i lavoratori del carbone aveva fatto il meo da ragazzino non poteva non identificarsi con la voce del narratore; per quello, evidentemente, tanti carbonai l’hanno imparato a memoria, cantato et tramandato (dagli anni 30 fino al 2000 !), senza ricordarsi del nome dell’autore e, a volte, se non il più spesso, senza sapere che si trattasse di una fonte scritta. In effetti, la grande vicinanza con l’originale delle due versioni raccolte rende molto probabile che la canzone si sia diffusa proprio a partire del testo stampato. Per di più, Claudio Rosati, che svolse negli anni 80 un lavoro approfondito d’inchiesta antropologica sui carbonai del Pistoiese, ci informa che, tra loro, il libretto del Tosi era « assai celebre »[4].
Il catalogo del 1980 dà pochissime informazioni su Realdo Tosi. Il poeta sarebbe nato a Villa di Baggio (Pistoia) da una famiglia di carbonai e faceva anche l’« improssimatore » (sic), cioè il poeta a braccio, coinvolto nei contrasti in ottava. Sarebbe defunto a Pontremoli, ed è probabilmente in questa zona che abitava già nel 29, visto il luogo della pubblicazione del suo libricino. Sarebbe senz’altro possibile e auspicabile saperne di più su questo poeta carbonaio che seppe così bene esprimere le tribolazioni e sofferenze della sua prima « campagna » nei boschi in gioventù, tanto da presentare uno specchio in cui ogni carbonaio potesse riconoscere la sua propria esperienza e fare sua la canzone, imparando i versi a memoria e cantandoli.
Quintilio Tosi
Nell’altra sua composizione, Il fuoco Corso pietoso e rio, Tosi si presenta come un autodidatta (« nove mesi di scuola elementare ») che lesse e rilesse Omero, Virgilio, Tasso (« spesso e volentieri ») e, più difficilmente, Dante, i cui i versi gli apparsero alquanto ermetici (« Leggendo i libri del sommo Alighieri/ Troppo oscuri per me, non capii niente »). Si dichiara « innamorato » di « scrivere in versi », senza pretendere in nessun modo al titolo di poeta. L’espressione di questa (finta ?) umiltà è d’obbligo tra i poeti a braccio: per dirsi poeta, non basta « l’estro di natura » e l’ « inclinazione » al poetare; bisogna frequentare il coro delle Muse, bere alla fontana d’Ipocrene, conoscere Apollo quasi di persona… tante parole per significare l’ispirazione sovrannaturale dei grandi poeti, ma che sono anche e forse sopratutto metafore sociali per alludere al mondo sociale dell’alto, da cui il poeta popolare rimane escluso e prima di tutto il mondo dell’educazione alle buone lettere, chiuso alla povera gente.
Questa composizione narra un fatto reale, accaduto il 2 d’Aprile dello stesso anno 1929 a Pietrapola in Corsica: l’incendio, avvenuto a causa del gran vento, delle carbonaie e delle capanne di una squadra toscana, nonché dei boschi circostanti, con grave pericolo della vita delle famiglie di carbonai e dello stesso poeta ivi presente. Tosi descrive con grande efficacia la violenza del vento, la lotta vana contro l’incendio delle carbonaie, la confusione della fuga nella macchia sui pendici della montagna, lo smarrimento e la rabbia dei carbonai davanti alla perdita non solo del carbone, ma del loro alloggio e di tutti i loro indumenti.
Fuoco « rio » davvero, ma anche « pietoso », tanto è vero che risparmiò la vita di tutti (« figli, babbo e mamma »). Ma pietoso anche e sopratutto perche si verificò un evento interpretato dai carbonai come sovrannaturale: in mezzo ai vestiti calcinati ritrovarono, quasi intatti, le immagini di devozione che tenevano con loro. Questo tipo di « miracolo » – l’oggetto sacro che rimane illeso nonostante il fuoco –, appartiene ovviamente ad una lunghissima tradizione nella cultura, non solo popolare, dell’occidente. Ma Tosi canta in tempi ormai di dubbio dilagante e cita, in modo quasi giuridico, i nomi di altri testimoni: Maria e Quintilio Tosi, probabilmente suoi familiari, e una donna di nome (o soprannome) Velleda.
Claudio Rosati ha proprio intervistato due protanogisti dell’incendio di Pietrapola: lo stesso Quintilio Tosi e una certa Sira Rossi[5]. Quintilio Tosi, di cui si può vedere il ritratto fotografico nel catalogo del 80 (p. 4), si ricorda che la « terra bruciava come zolfo » e parla anche dell’avvento miracoloso: « c’avevo due ‘aquilotti’, cinque lire d’argento. Io non son di quelli che crede tanto, ma qualcosa c’era. Gli ‘aquilotti’ eran colati ; nel portafogli si portava la Madonna di Valdibrana. C’era rimasto la corona e la Madonna ». Su questo particolare, il racconto di Sira Rossi è ancora più interessante: « … fra le cenere che era rimasta di tutta la valigia ci trovò il rosario. Il rosario era di corallo. Questo e altri santini rimasti dentro un portafogli. Erano rimasti affumicati, ma non bruciati. Questa povera donna – la ricordo ancora, non mi sembra che sia vero e pace che sia morta – li prese con una Madonna attaccata eh, attaccata proprio: ‘Mi siete rimasti altri che voi, non vi voglio più neanche voi’. Li buttò via, dalla grande disperazione »[6].
Il poema del Tosi non parla di questo gesto di disperazione, molto interessante da un punto di vista antropologico (questa reazione, in effetti, coinvolge una concezione del rapporto con gli oggetti sacri di protezione che ha ben poco a che fare con quello che si intende cristianamente per « devozione »); la sua è una realtà, almeno da questo punto di vista, in qualche modo pacificata e tipicizzata.
Nello stesso modo viene d’altronde elogiato l’attitudine del proprietario imprenditore, probabilmente corso, « Monsieur Favalli », che confortò e soccorse i miseri Pistoiesi. Non mancano però versi di denuncia degli imprenditori cattivi, che sfruttano i carbonai, non hanno nessuna « pietà di chi lavora » e si oppongono ai progressi del soccorso sociale. Anche questo aspetto, nel contesto dello Stato fascista nel 1929, meriterebbe di essere ulteriormente indagato.
Si riportano qui i due poemi senza cambiamento di grafia e aggiungendo poche note per facilitarne la lettura.
Jean-Pierre Cavaillé
Le due composizioni di realdo Tosi:
Il fuoco corso pietoso e rio e Il servitore de’ carbonai detto Mèo
1- Il fuoco corso pietoso e rio
Leggendo i libri del sommo Alighieri
Troppo oscuri per me, non capii niente,
Tasso lo lessi spesso e volentieri,
Ma nulla m’è rimasto nella mente.
Pur d’Omero e Virgilio i bei pensieri,
Mi piacque di rileggere sovente,
Chi ebbe penne d’argento e chi d’oro,
Invidio non averla come loro.
Se di scrivere in versi m’innamoro,
È l’estro di natura che mi sprona,
Pur non conobbi delle Muse il coro,
Nel suo soggiorno al monte Elicona.
All’ippocrene non ebbi ristoro,
Per cui il poeta bei versi sprigiona,
Neppure di Latona il biondo figlio,
Giammai conobbi, e non l’assomiglio.
Per cui non son poeta e non mi piglio,
L’immeritato onore d’esser tale,
Lo riconoscon tutti, e mi consiglio,
Se dico son poeta il dir non vale.
Solamente mi sforzo e m’assottiglio,
Che’l verso mi risulti men bestiale,
Nel dir che avvenne a Pietrapola e altrove,
Nel millenovecentoventinove.
Se scatenò terrore Marte e Giove,
Se s’arrabbiò Tibel, Tete e Nettuno
Vulcan non fece meno aspre prove
Quando intese vestir le genti a bruno.
Pur questo fatto a piangere ci muove,
Che senza cuor non ci sarà nessuno.
Pur io che scrivo il pianto a gli occhi sento
Per cagion d’un incendio violento.
Il due d’April si scatenò un gran vento
II foco dalle carbonaie smosse,
Pluto lo propagava a suo talento
Tanto che venne le foreste rosse,
Il carbonaio lanciato nel cimento,
Tra foco e fumo da par Minosse,[7]
Più s’arabatta, il foco più disegna
Distruggere carbon, baracche e legna.
Parea ’l voler di Dio, quando si sdegna
Contre di chi lo nega o non l’onora
L’aria parea di foco e zolfo pregna
Come piovve su Sodoma e Gomora
Oppure l’altro paragon c’insegna
Di quando avvien del mondo l’ultim’ora
Lettor lo sai come lo descrisse
Santo Giovanni nell’Epocalisse ?
Qui niente avria a provar l’eroe Ulisse
Ne Frusberta Gioiosa e Dorlindana[8]
Ma per domare il foco e che morisse
D’acqua vi occoreva una fiumana.
Il sol pel fumo ebbe a subir l’ecclisse
Tra foco e fumo pur la gente umana
Dopo aspra lotta orribile, accanita
Fu ben fuggire per salvar la vita.
Ansanti ! chi calava e chi a salita
Spossati tal da rimanere in panna
Poscia che vade tutta incenerita
E quali in fiamme la loro capanna
Ov’era la sua roba custodita.
Di salvare qualcosa ognun s’affanna,
Chi giunge appena in tempo, ha salvati
Ragazzi ch’eran ivi addormentati.
Gli urli, e lamenti sono incalcolati
Pianti di donne, stridi di fanciulli
Rabbia, passione d’omini snudati
Delle lor vesti, i lor guadagni nulli
Quei boschi appresso che di verde ornati
Sono ridotti sterili e si brulli
Uniti al quadro del lavoro perduto
Rimane ogn’uno imbecillito e muto.
Un italiano bene ho conosciuto
È del paese detto Germinaia[9]
Il prepotente vento 1’ha voluto
Sbalzar da una piazza carbonaia[10]
Venti minuti resta ivi svenuto
Mancò poco la morte gli s’appaia
Rinvenuto che fù da quello stato
Si trova dalle fiamme circondato.
Aiuto, aiuto spesso ebbe gridato !
Ma la risposta gli rimase muta.
Per dolore del braccio dislocato
E nel vedere che nessun l’aiuta
Fu talmente avvilito, e scoraggiato
Come veder la vita sua perduta.
Come Dio volle un varco egli s’aperse
E nel fosso vicino tosto s’immerse.
Pure agl’altri il bisogno gli s’offerse,
Come pria dissi di salvare la vita,
Chi fuggia per valli verdi e terse,
Chi per via più sicura e più gradita,
Ma nel loro fuggir piaghe diverse,
Il fuoco crea e fan gridare aita,
Giubbe e camice (orribile faccenda)
E pantalon si spengano a vicenda.
Quando cessò la furia aspra e tremenda
Colla passion nel cor che gli sovrasta
Ogn’un bisogna ben cura si prenda
Veder carbone e legna ch’è rimasta
Qui nuovo strale lo suo core attenda
Nel vedere scomparsa ogni catasta
Chi impreca, chi piange chi vien meno
Chi sentesi scoppiare il core in seno.
Son venuti da l’Italo terreno
A far la vita dura, aspra, amara
Perchè gli frutti un guadagnetto almeno
Per poi tornar alla lor patria cara.
Il pensier dolce, si cambiò in veleno
Si trasformò a Bosalla e Solenzara
A Quenza, Bura, Sera[11], (ria regione)
Luoghi di vento fuoco e di passione
Sorge un Serto alla lugubre canzone
In più alto timbro merita ch’io cambi.
In una dolente ricognizione
Una bella sorpresa ebbero tanti
Chi nei panni tenea per divozione
Immagin sacre di madonne e santi
Qual di metallo e quali in carta espressi
Bruciò le vesti, e non brucciaron Essi.
Ciò Maria Tosi e l’Idola confessi
Pure Quintilio Tosi e la Velleda
Testimoni oculari loro stessi
Se vale i testimon ciascuno creda.
Occorre questo fatto v’interessi
Ed alla realtà ogni dubbio ceda
Sono questi italiani Pistoiesi
Da cui questo miracolo compresi
O meglio convintissimo mi resi
Come mi presentaron quelle carte
Sacre, medaglie e corone presi
In mano, certo non le ebbi ad arte
Non sol dal fuoco, pur dal fumo illesi
Cosi la gloria nuova gloria imparte
Ogn’un commenti colla propria testa
Se vano è il credo, o realtà ci resta.
Se il caso ad arte alcun manifesta
Dirò pur io che’l caso quivi impera
Se parol caso è parola onesta,
Allor per caso venne Celo e Tera.
Allo spirito caso, facciam festa
Per caso venne la natura intera
Dican pur caso, caso dico anch’ io
Ma in questi casi c’è la man di Dio.
Questo è l’incendio pietoso, e rio
Risparmiò pure figli, babbo e mamma
Io pure appena incolume n’uscio
Fui per soffocare tra fumo e fiamma.
Appena constatato il cenerio,
Scrissi a Monsieur Favalli un telegramma
« Vostre macchie incendio distruttore »
Veloce vien sul luogo del dolore.
Come s’impegna un celebre dottore
Guarire l’ammalato che gl’è caro
Qualche medicamento superiore
Gli dà del più costoso e del più raro
Cosi Favalli mitiga il dolore
E lo guarisce tosto col denaro
Con parole melliflue conforta
Poscia il lavoro a ripigliar li esorta
Basta che non ci sia persona morta
Nell’orrendo diabolico disastro
Disse, se siete vivi, poco importa
Se arse legna di leccio e d’ulivastro
Chi mi ubbidisce e chi rispetto porta
Il cuor non ho di marmo o d’alabastro
Ma l’ho bensì filantropo e leale
Apprezzo il bene, e risarcisco il male.
Cancellato lo spirito brutale
Ogn’uno imiterebbe tale esempio
L’uomo, ama l’uomo da fratel carnale
Quindi la carità avrà il suo Tempio
Ma se caschiamo in un padron venale
Di lingua adulatrice e di cuore empio
Sempre; ma in questi casi la miseria
Piglia più proporsion, si fa più seria.
Sta ben la propaganda deleteria
Ver chi non ha pietà di chi lavora
Qui si presenta tosto la materia
Che alcuni impresari disonora
Quelli che trattan colla cattiveria
L’operaio calloso, – a all’ultim’ora
Abbandonato, triste, o malcontento
Senza soldi, ne vesti, e pien di stento.
Se non han diritto a risarcimento
Altra mano filantropa si elevi
Una sottoscrizione, o il parlamento
Elargisca una somma e li sollevi
Pur gli impresari sono in gran fermento
Che risentono danni pur non lievi.
C’ è chi elargisce per uman giustizia
E chi da niente per troppa avarizia.
Se non scrissi in buon metro e con perizia
Lo dissi che il poeta non so fare,
Come mi detta il cuor senza malizia
Ho voluto tal fatto raccontare,
Poca sapienza, la penna novizia
Nove mesi di scuola elementare
Poco posson valere allo scolaro
Sia pur d’ingegno fine del più raro.
Il mio studio fu quel del carbonaro,
Son da piccino in mezzo alla foresta
Costretto a lavorare al giorno chiaro
Di notte, a tempi tristi e alla festa,
Quando il lavoro è cosi duro e amaro
Vien duro anco ’l cervello della testa
Dunque lettore ti chiedo perdono
Se questi versi grossolani sono.
2- Il Servitore de' carbonai detto Meò
Se Apollo vorrà farmelo un favore,
Di mettermi qualcosa nella testa,
Vi dirò, quando feci il servitore,
A carbonai che stanno alla foresta.
Chiamarmi del mio nome non occore,
Ma bensì Meò la tradizion l’attesta,
Chi chiamò Mèo il primo m’indovino
Certo fù qualche gatto montanino.
Aveo dieci anni quando per destine,
Rimasi senza babbo e senza dote,
Ero dei figli il più grandino,
Mamma malata, lavorar non pote.
Vedevo ogni giorno sempre più vicino,
La Dea miseria e sempre più mi scote.
La vita mia aveva la struttura,
Da parer di Pinocchio la figura.
Fin da piccino la madre natura.
Mi fece sentir l’inclinazione
Con molto ardore alla letteratura,
A cui incominciai con gran passione
Ma quella scuola non fù duratura,
Sol pochi mesi dettemi lezione,
Fù giocoforza di cambiar pensiero,
Per guadagnarmi il pane giornaliero.
Mi prese un carbonaio calloso, nero,
Mi tenne una campagna[12] alla foresta,
Duro il lavoro tenero com’ero,
Immaginate voi se mi molesta.
Per me sono: Ubbidienza, e dire ’l vero,
Già massime inculcate nella testa,
Agile e pronto a ogni ordine impartito,
Giammai peccai d’averlo trasgredito.
Non avevo un lavoro ancor compito,
Che mi ordinava più d’una faccenda,
Svegliati Meò; presto avrai finito,
Se non vuoi il padrone ti contenda.
Và piglia l’acqua, e subito ammannito,
Bolla il paiolo, e la farina discenda,
Urla Aaùù pria che sia cotta,
Noi si risponderà, veniam di trotta.
Appen la prima fetta in bocca è rotta,
Forse perché non rida, o che non goda,
Mi dà dell’ imbecille e del marmotta
Dicendo è poco cotta e troppo soda.
Mentre l’avevo a termine condotta
Con tutte le bontà che ’l cuoco loda,
Pria che finisca di mangiare e bere
Mi fa tosto rizzare da sedere.
Meo, vai il carbone a rivedere,
E bada che non bruci, dammi retta,
Vai di corsa, non ti trattenere,
Non ti scordar ’l pennato ne l’accetta,
Hai da trinciar la legna. Vai a vedere,
Dev’essere già piena la barletta[13],
Portala quassù, fai come un razzo,
Araccatta il carbone e fai lo spiazzo.
Io delle strade non me ne imbarazzo,
Disse il padrone, fai quello stradello,
Cerca i zoccoli, legali in un mazzo,
E portali lassu dal mio rastello.
Il sommondino[14] è nel fosso in guazzo,
Un pò più tardi portaci anco quelle
E poi riguarda quelle carbonare,
Che Capre e Vacche l’abbiano a sciupare.
Meò, la foglia c’è d’araccattare,
La carbonaia è quasi calzolata[15],
Tu c’ai della legna da trinciare,
Perché nel capo non è ultimata,
Poi per la bua, le zolle c’ài da fare,
Bada di non ci metter ’na giornata,
Preparaci il fittone[16] e l’infochina[17],
E dée fumare innanzi domattina.
Aaaauuu ! Il mulattiere s’avvicina,
Meò il vaglio[18] è rimasto giù nel fosso,
Svelto ; vai a pigliarlo, Via, cammina!
Meò! — Avanti che tu ti sia mosso?!
C’è pur rimasta un po di braschettina[19],
E quattro abbocchi[20], portali sù addosso,
Alla piazza levata del fondino[21],
E giungi in piazza innanzi al vetturino[22].
Le balle butta giù dal Mulettino. —
Leva gli abbocchi. — Manda in quà il carbone,
Fai i randoli[23]. — Non far tanto pianino. —
Dammi una balla. — Svegliati zuccone. —
Ha un tanfo quella là del poggettino
Vai a tapparlo, poi planta il fittone
Scegli rammicci, trincia mozzi[24], e poi
Finita di coprire tu la infoi[25].
Bada l’infingardia che non t’annoi
Intanto piglia un corbello di tizzi
Li spacchi se un bel fuoco far ci voi
Accesa una scopa sulla bua li rizzi
Se ai piacer che si rabbocchi noi
Il tuo lavor la volontà ci aizzi
Prpara innanzi un bel monte di tera
Per caricargli il capo questa sera.
Meò, legna trinciata non ce n’era
A quella carbonaia del poggetto
Te l’ho detto stamani con maniera
Mi par che tu lo faccia per dispetto
Cosa farai questa primavera
Non arrivi alla fine ci scommetto.
Benchè è sempre freddo non t’avvedi
Camminando li fai solchi co’ piedi
Meò. — Le paravente[26] che tu vedi
Laggiù appoggiate, portale a codesta
Quando ’l sole va sotto se tu credi
Che qualcosa da fare ti ci resta
Dirò alla luna il tempo ti concedi
Cosi la mano ti verrà più lesta
Poi levati alla vita la fusciacca
Porta un fascio di legna alla baracca,
Trinciale accendi il foco, presto attacca
Il paiolo che bolla, alla catena
Dopo stacciata la farina, spacca
Quel tizzo grosso per far lume a cena.
Non mi ci fa trovare qualche tacca[27]
Secondo l’uso o qualche brusco appena
Mentre si cena: — Meò, dammi ’l bariletto
Meò, fai lume — Meo dammi il ronchetto[28].
Se cento volte al giorno, Meò a detto
Alla giornata la notte compete
Meò doventa un nome maledetto
Neppure al buio non ha tregua e quiete
Sopra duro giaciglio che ha per letto
Al nome Meò, scattare lo vedete
— Meò, — fai fuoco, il freddo, Meò s’interna
— Meò, — tira vento, accendi la lanterna.
Meò la notte è lunga quasi eterna
Vai a riveder quella sommonda[29]
Non ci sia fuoco nella parte esterna
Pur quella a fuoco guarda se è tonda
Montaci sopra, tasta, ben discerna
Se ’l pie calcando in qualche parte sfonda
Quante volte, il pie calcando, è entrato
Miracolo se’l Meò non s’è bruciato
Mi perseguitò sempre il duro fato
Di giorno, notte, a tempi buoni e crudi
Il Meò è scalzo, eppur l’anno mandato
A lavoro a dispenza perche sudi
Se il pacco delle scarpe non è arrivato
Non importa anderà coi piedi nudi
Se è freddo e le ungue vanno via
Non è poi una grossa malattia.
Se qualche volta male mi venia
Di solita polenta mi si pasce
Ne latte ne caffè non mi si offria
Dunque polenta o ferme le ganasce
E tosto brontolare si sentia:
— Il Meò sente l’erba quando nasce[30].
— Io quando sono stato mezzo morto
— D’esser malato non mi sono accorto.
Quando ’l padrone è cosi crudo e torto,
Meglio stare all’inferno con Minosse,
Un po di riposo, un cenno di conforte,
In quel regime credo che ci fosse,
Darebbe tempo, o semplice conforto,
Di fare all’uno naturali mosse,
Ma col mio padrone. anche l’orina,
Bisogna farla mentre si cammina.
Piansi pel gelo non chè per la brina,
Pei trattamenti di quell’ uomo infame,
Costretto a risparmiargli la farina
Restavo quasi sempre colla fame,
Carne se ne mangiò tanta pochina,
Ad onta dello spiede e del tegame.
Il pane lo mangiai, pria per Natale,
E più due volte: a Pasqua e Carnevale.
La polenta volea con poco sale,
Un baccalà ci fece una stagione,
La parte del formaggio, era tal quale,
Come di cacio far la comunione.
Pure i fagioli non ci fecer male,
Salacche, e aringhe con dimolta arsione,
Ma un giorno all’ improvviso vidi tosto
Che il padrone mangiava di nascosto.
È falso, è abituato dire l’opposto,
Specie ne giorni che al paese è andato,
Portarmi fichi e noci avea proposto,
Poi dice, che li ha persi, o s’è scordato,
Giovine sì, ma conosco il suo costo
Stò attento dove poi ha evacuato,
Vi trovo i semi di quei fichi stessi,
Non scordati, non persi, sol promessi.
Tutto non scriverò; sol v’interessi
D’immaginar cosa vol dire inferno
Non minor pena danno i miei processi
Eppure d’innocenza mi governo.
Quante volte in alto gli occhi messi,
E chiesi a mani giunte all’Ente Eterno,
Perchè mi tolse il padre, e non ha premura,
Di vigilare la sua creatura.
Mi manda, solo fuori a notte scura,
Non so quanto timore al cuor s’annida,
Aveo sentito dir che c’è paura,
In un punto ove sfogassi un omicida.
Sento chiamare Meò in lingua pura,
Un’ altra voce, urla, par che rida,
La terza: Tutto mio — dicea in fretta
I capelli m’alzavan la beretta.
Scappar veloce come una saetta,
L’anima di quel morto appresso aveo,
Poi seppi eran l’allocco e la civetta,
Ed un gatto selvaggio chiamar Mèo.
Pensai mi comandasser qualcosetta,
Ubbidire anco a Gatti mi credeo,
Cosí passai l’inverno giorno e sera,
E due o tre mesi pur di primavera.
Or l’aria è chiara, tiepida e leggera,
La campagna di fiori e d’erba è ornata,
Canta l’usignol con buon maniera,
La canzone del Mèo addolorata.
Sorride e canta la natura intera,
Inneggia alla campagnia terminata,
Di arivarci in fondo non credeo,
Ma Dio mi guardi di rifare il Mèo.
[1] Les forçats de la forêt. L'épopée des charbonnniers, Toulouse, Editions Universitaires du Sud, 2002, p. 91-100.
[2] Adriano Mancini, Giordano Pini, Vincenzo Pellegrinetti, in collaborazione con Franco Tuci, Il carbonaio. Un mestiere in estinzione, Tip. Nazionale, Ufficio Stampa del Comune di Pistoia, 1980.
[3] Ne ho rintracciato una ristampa recente nel catalogo della biblioteca Forteguerriana di Pistoia: Il fuoco corso pietoso e rio e Il servitore de' carbonai detto Mèo: versi in ottava rima, di Realdo Tosi di Pistoia. - [S.l. s.n.], 2005. - 23 p. 1 ritr. Da notare che il materiale della tipografia Cavanna si può vedere al Museo delle Mura di Borgo val di Taro.
[4] Il fuoco e la memoria, « La Ricerca Folklorica », n°. 28, 1993, pp. 133-138, p.136. Si veda anche, dello stesso, Breve Storia di un lamento e di uno sguardo, « ‘Ottava vita’ e dintorni. I carbonai dall’ottava rima al rock », a c. di Gianfranco Monteni, Siena, Amministrazione Provinciale, 1997, pp. 63-75.
[5] Il fuoco e la memoria, art. citato, p. 137.
[6] Ibid. p. 137.
[7] Il re degli Inferni.
[8] Le spade magiche di Rinaldo, Carlomagno e Orlando.
[9] Paese dell’Appenino pistoiese.
[10] L’aia in cui si costruisce la carbonaia.
[11] Borghi, paesi e paesini della Corsica al nord di Porto-Vecchio, il luogo d’approdo dei carbonai toscani embarcati a Piombino.
[12] Stagione di lavoro.
[13] Detto anche « bariletto » o « barletto ». « Recipiente fatto di strisce di legno usato per la conservazione dell’acquo ; uno dei compiti fondamentali del meo era di provvedere che fosse sempre pulito e pieno », Il Carbonaio, p. 24.
[14] « Rastrello in legno che serviva per ripulire la terra prima di metterla sulla carbonaia », Il Carbonaio, p. 24. Nella versione di Saturnana: « semandino ».
[15] Calzolatura: « Operazione consistente nel circondare la carbonaia con un cerchio di zolle alto circa 50 cm », Il Carbonaio, p. 24.
[16] « Pezzo di un tronco piantato in terra, sul quale si spezzano i mozzi », Il Carbonaio, p. 24. « Trigante » nella versione raccolta da Alfo Signorini.
[17] Anche « Infuochino » o « infoina ». Lungo bastone usato per distribuire il fuoco sul fondo della carbonaia subito dopo aver gettato i primi mozzi accesi », Il Carbonaio, p. 24.
[18] « Mezzo per mettere il carbone nelle balle ; paragonabile a un corbello sezionato longitudinalmente », Il Carbonaio, p. 24.
[19] Carbonella.
[20] « Fuoco che viene fatto sulla bocca della carbonaia per poi buttarlo all’interno e dare inizio alla cottura », Il Carbonaio, p. 24.
[21] Il fondino è il focolo centrale della carbonaia.
[22] Il mulattiere, che assicura il trasporto del carbone.
[23] « Picoli rami di legno usati per chiudere le balle », Il Carbonaio, p. 24.
[24] « Pezzetti di legno usati per infuocare la carbonaia », Il Carbonaio, p. 24.
[25] La infuochi.
[26]« Frasche o altri mezzi usati per parare il vento alla carbonaia », Il Carbonaio, p. 24.
[27] « Scheggie di legno che saltano via via ad ogni colpo di accetta », Il Carbonaio, p. 24.
[28] Detto anche « roncola » o « ronchetta ». « Coltello ricurvo usato per ripulire il legno della corteccia », Il Carbonaio, p. 24.
[29] ripulita.
[30] Allusione al detto « guardare l’erba crescere ».